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Pagamento di assegno a persona diversa dal beneficiario: quando è responsabile la banca

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 14/05/2021, N. 13148 –

La Cassazione è tornata a giudicare i profili di responsabilità della banca negoziatrice (ossia quella che materialmente riceve l’assegno dal prenditore al fine di incassarlo) nel caso in cui paghi un assegno non trasferibile a persona diversa dall’intestatario.

La cornice normativa è quella dell’art. 43, R.D. del 21/12/1933, n. 1736, ai sensi del quale “colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento”.

Con la sentenza in esame è stato ribadito il principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2018 (set. 12477): “la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’articolo 1176, comma 2, del codice civile” e cioè la diligenza che si può pretendere da chi svolge e possiede le specifiche competenze dell’attività bancaria.

A questo riguardo, è stato affermato che “la negligenza del funzionario della banca negoziatrice si evidenzia solo allorquando l’alterazione del titolo posto all’incasso sia riscontrabile “ictu oculi”, attraverso un esame diretto, visivo o tattile dell’assegno da parte del funzionario addetto (Cass. civ. sez. I, 12/05/2021, n. 12573), “in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, nè è tenuto a mostrare le qualità di un esperto grafologo” (Cass. civ. sez. VI, 19/06/2018, n. 16178).

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Il consenso informato del paziente

CORTE CASSAZIONE SEZ. III SENTENZE N. 7385 DEL 16.3.2021, N. 8163 DEL 23.3.2021 E N. 12593 DEL 12.5.2021; N. 18283 DEL 25.5.2021

L’occasione delle problematiche vaccinali del periodo che stiamo vivendo rende di particolare interesse il tema de consenso informato, anche alla luce delle ultime sentenze di legittimità.

Ogni trattamento sanitario o esame diagnostico necessita del consenso del soggetto che vi si sottopone. L’obbligo di acquisire il consenso informato, a carico della struttura e del sanitario, è attuazione di principi costituzionali e di norme di legge che a questi si rifanno. In particolare, l’art. 32, 2° co. della Costituzione sancisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, l’art. 13 della Costituzione garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e l’art. 33 L. n. 833 del 1978 esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p..

L’obbligo di informazione del paziente e di acquisizione del consenso è oggi codificato dalla Legge 219 del 22.12.2017Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

Le disposizioni della norma che interessano l’argomento trattato oggi recepiscono i principi che la giurisprudenza di legittimità ha elaborato nel tempo sull’obbligo del consenso informato, che sono i seguenti:

  • Diritto all’autodeterminazione della persona con la premessa che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 1 c.1).
  • Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi (art. 1 c. 3).
  • Il consenso informato deve essere documentato in forma scritta o videoregistrazione e, in casi di incapacità del paziente di esprimersi con i suddetti mezzi, con idonei mezzi.

È particolarmente significativo il contenuto che deve avere l’informazione che deve essere fornita dal sanitario e dalla struttura al paziente, perché il suo consenso possa essere considerato valido e ciò è quanto disposto dal comma 3 dell’Art. 1 della legge citata. Quanto ai benefici e ai rischi la giurisprudenza ha precisato che l’obbligo informativo deve comprendere tutte le implicazioni del trattamento, siano esse benefiche come di rischio ma anche di esito inalterante, ovvero quando al trattamento, benchè non siano conseguiti esiti negativi, non sia seguito alcun miglioramento con ciò dimostrandosi la sua inutilità.

La conseguenza della mancata informazione così come dell’informazione carente – che tale potrebbe essere sia per il contenuto che per la forma di comunicazione al paziente, non idonea alle sue capacità di comprensione – può causare, in caso di conseguenze al trattamento invalidanti, due figure di danno risarcibile.

Un danno alla salute sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente se correttamente informato avrebbe evitato di sottoporsi al trattamento e di subirne le conseguenze.

Un danno da lesione dell’autodeterminazione in sè stesso che sussiste quando la mancanza informativa abbia causato al paziente un pregiudizio diverso dal danno alla salute.

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È punibile l’abbandono di minori anche se temporaneo

CASSAZIONE PENALE SEZ. V, 10/06/2021, N.27926 –

Riportiamo la recente sentenza n. 27926 del 10.06.2021 della Sezione V Penale della Corte di Cassazione che fornisce un quadro completo e aggiornato degli orientamenti giurisprudenziali in tema di abbandono di minori e persone incapaci, fattispecie di reato punita dall’art. 591 del codice penale.

Ad avviso della Corte, integra il delitto di abbandono “qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo”.

Particolare rilievo assume il rapporto di custodia tra l’agente e il minore o l’incapace, che può sorgere sia da obblighi giuridici formali (es. il genitore nei confronti del figlio minorenne), sia da una spontanea assunzione dell’obbligo da parte dell’agente (es. sorveglianza di un bambino a titolo di cortesia), sia da una mera situazione di fatto. La cura invece può derivare unicamente “da valide fonti giuridiche formali”.

L’elemento soggettivo del reato consiste “nella coscienza di abbandonare a sé stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica di cui si abbia l’esatta percezione, senza che occorra la sussistenza di un particolare malanimo da parte del reo”.

È interessante notare che i Giudici di legittimità hanno altresì precisato che “per la sussistenza del delitto di abbandono di persone minori o incapaci basta uno stato, sia pure potenziale, di pericolo per l’incolumità del minore o dell’incapace in dipendenza dell’abbandono, onde l’abbandono è punibile anche se temporaneo” (Cass. penale sez. V, 24/03/2021, n. 27883).

Nel caso di specie, veniva confermata la condanna a carico di un padre che, recatosi presso una Caserma dei Carabinieri – per un incombente del quale non aveva certezza della durata – aveva lasciato per circa una mezz’ora la figlia di 5 anni a bordo del proprio veicolo, posteggiato all’interno di un parcheggio di un supermercato(“senza barriere all’ingresso e, quindi aperto all’accesso di qualunque soggetto”) che, peraltro, non poteva essere sorvegliato dall’interno della Caserma.

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Il prestito senza termine di scadenza

È stato sottoposto all’attenzione dello Studio Legale Campiotti Mastrorosa il seguente caso.

Tizio intende ottenere la restituzione di un’ingente somma prestata al fratello Caio, senza che i due avessero fissato un termine per la ripetizione del denaro.

Il primo profilo da considerare è quello regolato dall’art. 1817 c.c., ai sensi del quale, quando le parti non hanno fissato un termine per la restituzione delle somme prestate, è il giudice che lo determina.

Sembrerebbe quindi che il creditore che intenda recuperare le somme prestate, prima di poter formulare anche solo una richiesta di restituzione al debitore, debba rivolgersi al Tribunale affinché venga stabilito il termine entro cui quest’ultimo sia tenuto a restituire il denaro ricevuto a prestito.

D’altra parte, qualora il debitore rimanga inerte e non adempia spontaneamente, il creditore potrebbe agire in giudizio richiedendo contestualmente sia la fissazione del termine, sia la condanna di pagamento. La giurisprudenza, infatti, afferma che la pronuncia ha natura di accertamento, il che significa che il Giudice potrebbe ritenere che il termine sia già decorso al momento della domanda, essendo già trascorso un lasso di tempo congruo per la restituzione.

Non bisogna poi dimenticare che a tutela del creditore trova comunque applicazione la regola generale statuita dall’art. 1186 c.c., che legittima la pretesa immediata di adempimento – in questo caso di restituzione del prestito – qualora il debitore è divenuto insolvente oppure ha diminuito o non offerto le garanzie dovute o promesse. Ne consegue che in tal caso non sarà necessario alcun provvedimento sulla fissazione del termine, ma si potrà agire direttamente per la condanna di pagamento.

Non si esclude anche la possibilità dell’azione monitoria al fine di ottenere un’ingiunzione di pagamento nei confronti del mutuatario, con implicito riconoscimento dello stato di insolvenza o del decorso del termine congruo.

Il secondo profilo concerne la prescrizione. In tempi relativamente recenti la Cassazione ha chiarito che, in assenza di termine, il creditore è legittimato a richiederne la fissazione al Giudice sin dall’insorgere del prestito, pertanto la prescrizione decennale del suo diritto alla restituzione inizia a decorrere dal momento della stipula del contratto (Cass. 14345/2009).

Tutto quanto sopra vale anche nel caso in cui le parti abbiano stabilito che il debitore “paghi solo quando potrà” (co. 2, art. 1817 c.c.).

In conclusione, sarà possibile fornire una soluzione al quesito di Caio dopo un’attenta valutazione delle circostanze del caso concreto alla luce dei principi appena richiamati.

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Vendita: in caso restituzione del bene, bisogna tener conto dell’uso fatto

CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, 28/07/2020, N.16077 –

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha chiarito, in tema di vendita, i criteri da adottare per determinare il prezzo da restituire al compratore in caso di azione redibitoria.

Secondo quanto previsto dall’art. 1492 del Codice civile, è facoltà del compratore chiedere, laddove la cosa acquistata presenti vizi tali da renderla inidonea all’uso o da diminuirne in modo apprezzabile il valore, la risoluzione del contratto (la cd. azione redibitoria) con i seguenti effetti: il venditore dovrà provvedere alla restituzione del prezzo e al rimborso al compratore delle spese e i pagamenti sostenuti per la vendita; il compratore sarà tenuto a restituire la cosa, se non perita in conseguenza ai vizi.

Nel caso affrontato dai Giudici di Legittimità, l’azione redibitoria aveva ad oggetto un veicolo che, pur in presenza di vizi accertati, il compratore aveva continuato ad utilizzare per anni ovvero fino alla definizione del giudizio d’appello.

Nei precedenti gradi di giudizio, accolta l’azione di risoluzione, era stato ordinato al venditore di restituire l’integrale prezzo dell’automobile affetta dagli accertati vizi, e contestualmente all’acquirente di riconsegnare il veicolo nello stato in cui si trovava al momento della pronuncia (e, quindi, in ragione degli anni trascorsi e dell’uso, con un valore di gran lunga inferiore a quello avuto al momento della vendita).

La Corte di Cassazione, rilevando che gli effetti restitutori statuiti nella sentenza impugnata avevano dato origine ad una disparità di trattamento tra venditore e compratore, enunciava il seguente principio di diritto: “nella determinazione del prezzo da restituire al compratore di un’autovettura che abbia agito vittoriosamente in redibitoria si deve tener conto dell’uso del bene fatto dal medesimo, dovendosi, sul piano oggettivo, garantire l’equilibrio anche tra le reciproche prestazioni restitutorie delle parti ed evitare un’illegittima locupletazione dell’acquirente, ove lo stesso abbia continuato ad utilizzare il bene (ancorchè accertato come viziato ma non completamente inidoneo al suo uso), determinandone una sua progressiva e fisiologica perdita di valore” (Cass. Civ., Sez. II, 28.07.2020 n. 16077).

Si precisa che, nel caso in cui il compratore sia anche consumatore, la normativa di riferimento sarà quella di cui al D. Lgs. 206/1995 e, in particolare, l’art. 130 n. 8, che, a differenza dell’art. 1493 c.c., prevede che nel determinare l’importo della riduzione o la somma da restituire si tenga conto dell’uso del bene.

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Uso Esclusivo Di Parte Del Cortile Comune – Natura Ed Effetti

CORTE CASSAZIONE SEZIONI UNITE N. 28972 DEL 17.12.2020 –

Accade non raramente di trovarsi, in ambito di condominio di edifici, in presenza di un diritto d’uso esclusivo nascente in uno con la costituzione del condominio, a favore di uno o più condomini di porzioni di parti comuni. Ne sono oggetto più usualmente parti del cortile, spesso ad uso parcheggio, e/o parti del giardino comune, in generale attigue all’unità di proprietà esclusiva o comunque ad essa utili.

Le pronunce della Corte di Cassazione sulla natura e legittimità di tale “diritto”, sono state al riguardo molteplici e di segno opposto. Alcune hanno riconosciuto al detto “diritto d’uso esclusivo” il rango di diritto reale, come tale perpetuo e trasmissibile anche ai successivi proprietari dell’unità immobiliare in proprietà esclusiva, di esso beneficiaria, altre negandolo per inquadrarlo nei differenti diritti obbligatori, sicché della questione sono state investite le Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con completezza espositiva delle precedenti pronunce di segno alterno e motivazione più che esauriente, hanno escluso la natura di diritto reale al “diritto d’uso esclusivo” in oggetto.

Afferma infatti la Suprema Corte che nel nostro sistema normativo le figure dei diritti reali sono un numero chiuso che non consente all’autonomia delle parti la creazione di figure non tipiche. La conseguenza è che il diritto d’uso esclusivo in parola è nullo.

La Corte mitiga la declaratoria di nullità del diritto d’uso esclusivo quale figura atipica di diritto reale, affermando che sarà comunque opportuno indagare la volontà delle parti al momento della costituzione del condominio e della disposizione relativa al diritto d’uso esclusivo.

L’accertamento della volontà delle parti potrebbe portare a tre ipotesi: che esse abbiano inteso trasferire la proprietà della porzione condominiale impropriamente indicata come contenuto del diritto d’uso esclusivo; ovvero che esse abbiano inteso concedere il diritto reale d’uso normato dall’art. 1021 c.c., semprechè ne sussistano i requisiti, o, da ultimo, che esse abbiano inteso concedere un diritto di natura obbligatoria.

Le differenze tra le prime due ipotesi e la terza sono certamente significative quantomeno sotto il profilo della trasmissibilità a terzi del diritto che è esclusa qualora si sia in presenza di un uso esclusivo di natura obbligatoria.

Non si può escludere che la volontà delle parti fosse, invece, proprio quella della costituzione della figura atipica di un diritto d’uso esclusivo con effetti reali, che le SS.UU. hanno dichiarato nullo. In tal caso le SS.UU., nel rispetto del principio di conservazione degli effetti giuridici del contratto, suggeriscono che andrà verificata la possibilità che la clausola nulla possa comunque produrre gli effetti di un vincolo obbligatorio che di conseguenza, tra gli altri effetti, non potrà essere trasferito a terzi e al più avrà durata per la vita del beneficiario.

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La comunione legale dei beni tra i coniugi

CORTE CASSAZIONE SEZ. IV ORDINANZA N. 3767 DEL 21.02.2021 –

Un recente pronunciamento della Corte di Cassazione – l’ordinanza n. 3767 del 12 febbraio 2021 – ci dà lo spunto per rivisitare i principi che regolano la comunione legale dei beni tra i coniugi.

La norma di riferimento è l’art. 177 codice civile. Essa prevede che rientrano nella comunioneconiugale gli acquisti effettuati durante il matrimonio dai coniugi, sia insieme che singolarmente, le aziende gestite da entrambi i coniugi se costituite dopo il matrimonio. Entrano altresì a far parte della comunione legale, purchè non consumati al momento del suo scioglimento, i frutti dei beni esclusivamente propri dei coniugi e i proventi delle attività separate dei coniugi.

Si tratta della cosiddetta comunione de residuo, poichè riguarda esclusivamente ciò che rimane al momento del suo scioglimento che, salvo casi più rari, si verifica al momento della separazione coniugale.

Il principio che la norma esprime riguardo ai frutti e ai proventi è che ciascuno dei coniugi è libero di disporre in totale autonomia dei redditi che produce con la propria attività e dei proventi dei beni suoi propri, decidendone l’utilizzo a suo esclusivo piacimento, come meglio ritenga opportuno senza che sia necessario l’accordo con l’altro coniuge cui non spetta alcun potere di veto.

Questo principio, che all’apparenza sembra legittimare comportamenti quantomeno personalistici e contradditori con la comunione coniugale, sia intesa in senso giuridico che nel suo senso etico, ha un limite ben preciso.

Il limite è dato dai doveri che nascono dal matrimonio, indicati dall’art. 143 codice civile. Non solo dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco, tra gli altri, all’assistenza materiale, ma anche quello di contribuire ai bisogni della famiglia, secondo le proprie sostanze e le proprie capacità lavorative, professionali e/o casalinghe. Ciò impone ai coniugi un obbligo contributivo per i bisogni della famiglia.

Al di fuori di tali obblighi, ciascuno dei coniugi può legittimamente usare i suoi proventi e “consumarli” come meglio preferisce, per fini esclusivamente personali o, meglio, per attività esclusivamente personali sia voluttuarie che non. Naturalmente se l’utilizzo dei proventi personali ha l’effetto di acquistare beni questi entreranno a far parte della comunione ai sensi del punto a) del citato art.177.

L’ordinanza della Corte di Cassazione 376 del 2021 conferma tali principi in particolare affermando che “la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi” dove l’avverbio “effettivamente” assume una rilevanza dirimente (si veda al riguardo anche Cass. Sez. I n. 2597 del 07. 2. 2006).

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Guida in stato di ebbrezza: il rifiuto di sottoporsi agli accertamenti

CASSAZIONE PENALE SEZ. IV, sent. 16/03/2021, n. 10146

All’interno della più ampia regolamentazione dell’illecito di guida in stato di ebbrezza alcolica, il co. 7 dell’art. 186, D.Lgs 285/1992 (il cd. Codice della Strada) prevede un’autonoma fattispecie di reato nel caso di rifiuto da parte del conducente di sottoporsi ai relativi accertamenti.

Il citato comma 7, fa esplicito riferimento agli accertamenti indicati dai commi 3, 4 e 5.

In base al comma 3, le forze di Polizia possono effettuare una valutazione “preliminare”, con metodi non invasivi (ad es. utilizzando strumenti portatili) al fine di verificare se il conducente deve essere sottoposto al controllo del tasso alcolico.

Il comma 4 prevede che, nel caso in cui ci sia motivo di ritenere (eventualmente dopo le valutazioni di cui al punto precedente) che il soggetto fermato si trovi in uno stato di alterazione psicofisica dovuta all’abuso di alcol, gli organi di Polizia possono effettuare gli accertamenti tramite etilometro rispondente ai requisiti di cui all’art. 379, Reg. Cod. Strada, anche accompagnandolo presso il più vicino ufficio o comando.

Da ultimo, il comma 5 dispone che ai conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcoolemico viene effettuato, su richiesta degli organi di Polizia stradale, da parte della struttura sanitaria.

Un aspetto di recente ribadito dalla Cassazione è che tale norma deve essere letta in modo rigoroso e non può dar luogo ad applicazioni estensive o analogiche. Con la sentenza n. 10146 del 2021 è stato assolto il conducente di un motociclo che si era rifiutato di seguire presso una vicina struttura ospedaliera i Carabinieri, con lo scopo non di prestagli delle cure, pur essendo rimasto coinvolto in un incidente, ma di verificarne lo stato di ebbrezza.

Tale ipotesi, infatti, non rientra in alcuno dei casi previsti dai commi 3, 4 e 5 sopra ricordati.

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Diritto di cronaca e privacy

CASSAZIONE CIVILE SEZ. I, 19/02/2021, N.4477 –

Pochi giorni fa è stata depositata un’interessante sentenza in tema di corretto bilanciamento tra diritto alla cronaca giornalistica e la tutela della privacy.

Il fatto in sintesi era il seguente. I genitori di una bambina, che versava in stato semi-comatoso, nella speranza di ottenerne qualche effetto positivo, invitavano un noto calciatore a farle visita. Lo sportivo accettava e, in occasione dell’incontro, venivano scattate delle fotografie ritraenti il calciatore, nonché la minorenne e i genitori della stessa. Poco dopo, le immagini erano riprodotte da importanti quotidiani e reti televisive. Per tale ragione, i genitori citavano in giudizio i media al fine di ottenere il risarcimento del danno morale, contestando di non aver rilasciato alcuna autorizzazione o consenso alla pubblicazione.

Il Tribunale rigettava le pretese degli attori, i quali promuovevano ricorso in Cassazione.

La pronuncia in esame, al di là della decisione del caso di specie, risulta significativa anche per l’esaustiva disamina di tutte le norme e i principi necessaria per poter stabilire i limiti entro i quali, per ragioni di cronaca, è lecito utilizzare l’immagine di una persona. Va detto, inoltre, che un’attenzione particolare è stata posta alla circostanza che era coinvolto un minorenne.

La Cassazione ha affermato che “il diritto alla riservatezza del minore deve essere considerato assolutamente preminente” e che può essere subalterno al diritto di cronaca solamente quando sussista “in concreto, uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita”. Infatti, “la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sè, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte”.

Accogliendo le doglianze dei genitori, la Corte ha ritenuto che, nel caso concreto, il Tribunale aveva omesso l’accertamento dello specifico interesse pubblico alla rivelazione delle fotografie del minore. Interesse che, alla luce di quanto emerso in giudizio, non risultava sussistere.

Nel caso concreto l’avvenuta pubblicazione di foto centrate (anche) su di una minore allettata, non importa se con il viso oscurato, tra apparecchi e cavi, con medici ed infermieri e con la diffusione delle generalità, è certamente lesiva di quel preminente interesse del minore”.

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La pensione di reversibilità ai superstiti non esclude il danno patrimoniale ai famigliari della vittima

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 01/02/2021, N. 2177 –

La Cassazione è recentemente tornata ad occuparsi del problema della cumulabilità tra pensione di reversibilità ai superstiti e risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante.

Il caso era quello dei famigliari di Tizio, deceduto a seguito di un sinistro stradale causato dal veicolo condotto da Caio, che ricorrevano al Tribunale per vedersi riconosciuto, tra l’altro, il danno patrimoniale dovuto alla perdita degli emolumenti che Tizio garantiva alla propria famiglia.

In primo grado, così come in appello, la richiesta dei congiunti di Tizio era rigettata. Veniva infatti affermato che, dal momento che i famigliari danneggiati beneficiavano d’una pensione di reversibilità pari al 60% del reddito del defunto, si doveva applicare il principio della cd. “compensatio lucri cum damno”, ossia il criterio secondo cui i danni derivanti da un illecito (in questo caso la perdita dei guadagni di Tizio) si debbano compensare gli eventuali vantaggi conseguiti (in questo caso la pensione ai superstiti conseguenza diretta della morte di Tizio).

Rivoltisi alla Corte di Cassazione, i famigliari trovavano finalmente il riconoscimento alle proprie pretese.

Aderendo all’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite nel 2018, la Corte ha infatti ricordato che la compensatio lucri cum damno può attuarsi solo nel caso in cui la fonte della perdita e del guadagno derivino da fatto illecito.

Nel caso di specie, invece, “dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo”.