Studio Legale Campiotti Mastrorosa

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Diritto Civile

La composizione negoziata della crisi

La composizione negoziata della crisi d’impresa è un istituto disciplinato dal Codice della Crisi di Impresa e dellInsolvenza. Si tratta di uno strumento di sostegno alle imprese, di facile accessibilità, il cui fine è quello di sostenere l’imprenditore e l’attività da questi svolta qualora essa versi in uno stato di fisiologico stallo, consentendo di non rimanere passivi e subire un potenziale declino societario ma, al contrario, di attivarsi per risanare limpresa e agire per la continuità aziendale, riportando la società ad un livello di sana competitività in tempi rapidi.

Il rimedio è volontario ed il ricorso ad esso è rimesso alla libera valutazione dell’imprenditore.

Scopo del procedimento di composizione negoziata è quello di intraprendere un percorso di negoziazione con i creditori sociali che possa terminare, auspicabilmente, con la sottoscrizione d’un accordo sostenibile che scongiuri l’apertura di procedure concorsuali e ristrutturi il debito societario ripristinando così la stabilità economico-finanziaria.

L’imprenditore è assistito, nell’ambito della procedura, da un professionista (c.d. esperto), che lo supporta nelle scelte strategiche maggiormente delicate. Le scelte aziendali ordinarie e straordinarie, ove non strategicamente rilevanti, però, sono sempre intraprese dall’imprenditore autonomamente.

Al procedimento di composizione negoziata possono ricorrere tutte le imprese iscritte nel Registro Imprese, comprese le ditte individuali e le società agricole, che versino in una situazione di concreto ed obiettivo, ancorché temporaneo, squilibrio patrimoniale o dissesto economico-finanziario che, potenzialmente, potrebbe portare ad uno stato di crisi o all’insolvenza.

Il procedimento si può avviare con il deposito d’una istanza presso la CCIAA competente, sia nella fase antecedente alla vera e propria crisi, sia durante la crisi, sia quando la società è già in stato di insolvenza: presupposto imprescindibile, però, è che sia concretamente attuabile e perseguibile l’obiettivo del risanamento societario. Diversamente, il deposito dell’istanza è precluso sin dall’inizio.

I soggetti coinvolti nella procedura sono tre: l’imprenditore, che dà impulso al procedimento di composizione depositando l’istanza, l’esperto, che è individuato all’interno d’un elenco presente presso la CCIAA di ogni capoluogo di regione, ed i creditori sociali.

In particolare, l’esperto è un soggetto terzo ed imparziale, di comprovata esperienza, equidistante dalle parti coinvolte, a cui è attribuita anche una funzione di “garanzia” del corretto comportamento dell’impresa (debitrice) di fronte ai creditori sociali. È il soggetto che stimola gli accordi, facilita le trattative e dirige le negoziazioni tra l’impresa, i creditori e gli altri eventuali soggetti coinvolti (intera compagine sociale, azionisti, titolari di quote etc.).

Con riguardo alla procedura, come detto, la stessa prende le mosse con il deposito da parte dell’imprenditore (legale rappresentante) dell’istanza di nomina dell’esperto presso la CCIAA di riferimento.

A tal fine, è necessario avvalersi dell’apposita piattaforma sulla quale, peraltro, sono messe a disposizione anche le linee guida e le migliori pratiche da seguire per la predisposizione del piano di ristrutturazione del debito, corredate da un test pratico, non obbligatorio ma vivamente consigliato, funzionale ad una preliminare verifica di astratta perseguibilità del piano di risanamento societario.

Sulla piattaforma, infine, è presente anche un protocollo contenente le linee guida da adottarsi in sede di trattative finalizzate alla composizione.

All’istanza vanno allegate la documentazione obbligatoria richiesta ed una descrizione minuziosa dell’impresa e dell’attività da essa esercitata, nonché una panoramica riepilogativa delle difficoltà in cui l’impresa versa e delle scelte strategiche che si intendono attuare al fine del risanamento societario.

Depositata l’istanza, una commissione formata da tre membri nomina l’esperto.

L’esperto, ultimata la procedura, deposita la relazione finale con cui elenca analiticamente l’attività svolta e le possibili soluzioni emerse all’esito delle trattative con i creditori che potrebbero sopperire agli squilibri economico-finanziari.

Ove le risultanze della relazione siano positive, l’imprenditore è ammesso a concludere contratti con i creditori.

Ove le risultanze della relazione, invece, siano negative, la procedura viene archiviata e l’imprenditore è legittimato solo ad attivare le ulteriori procedure giudiziali previste in caso di crisi dell’impresa.

Al momento di pubblicazione dell’istanza di nomina dell’esperto nel Registro Imprese, l’imprenditore ha facoltà di richiedere misure protettive del patrimonio aziendale.

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Diritto Civile Senza categoria

Il prestito tra privati legati da rapporto di parentela

TRIBUNALE DI VARESE, SENT. N. 355/2023 e SENT. 453/2023

Il prestito tra privati, anche legati da rapporto di parentela, è istituto giuridico riconducibile allo schema normativo del contratto di mutuo (artt. 1813 ss c.c.).

La consegna del denaro determina il perfezionamento dell’accordo, con la conseguenza che il mutuatario diviene proprietario del denaro – o altro bene – consegnato (art. 1814 c.c.), assumendo contestualmente l’obbligo di restituirlo al mutuante entro la scadenza pattuita (artt. 1816 e 1817 c.c.).

Il mutuo si presume oneroso in quanto il mutuatario, a titolo di corrispettivo, deve corrispondere gl’interessi al mutuante (art. 1815 c.c.): tali interessi, salvo diversa pattuizione, sono dovuti al tasso legale e non possono superare i tassi soglia di riferimento periodicamente aggiornati con decreto ministeriale.

Nulla vieta, però, che il mutuo sia concluso a titolo gratuito, cioè non siano dovuti interessi da parte di chi ha ricevuto il denaro, permanendo in tal caso in capo a costui solo un obbligo di restituzione.

Per la conclusione d’un contratto di prestito tra privati non è necessario alcun requisito di forma, essendo sufficiente anche il solo accordo verbale delle parti.

Sotto il profilo processuale, assume particolare rilievo l’ipotesi di mancata restituzione del danaro consegnato in forza di mutuo verbalmente stipulato tra parenti: in detti casi, il creditore-attore ha l’onere di provare l’avvenuta consegna ed il conseguente diritto ad ottenere la restituzione. Tale onere non viene meno neanche nel caso in cui la controparte inadempiente, pur ammettendo di aver ricevuto delle somme, dovesse eccepire che dette somme siano state consegnate ad altro titolo, diverso dal mutuo, e, quindi, di non essere gravata da alcun tipo di obbligo di restituzione.

L’obbligo di restituzione, infatti, segna il discrimine tra il mutuo e figure affini caratterizzate dall’assenza di doveri restitutori quali atti di liberalità (c.d. donazioni) o prestiti eseguiti in esecuzione di doveri morali o sociali, molto frequenti in ambito familiare (c.d. obbligazioni naturali).

Per evitare, dunque, che lo scambio di denaro risulti avvenuto a titolo donativo o in ossequio di un’obbligazione naturale – con conseguente rigetto della domanda restitutoria – spetta al creditore mutuante dimostrare, oltre all’avvenuta consegna della somma di cui già si è detto, anche che il rapporto contrattuale è da ricondursi al mutuo e non già ad altre figure contrattuali affini.

Sul punto, unarecente pronuncia del Tribunale di Varese (sentenza n. 355/2023) ha affermato, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità, che chi chiede la restituzione di somme è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non basta dimostrare l’avvenuta consegna del danaro, ma anche che tale consegna è stata effettuata per un titolo -il mutuo appunto- che implichi l’obbligo di restituzione, così da soddisfare l’onere della prova.

In un procedimento civile, terminato con affine decisione (sentenza n. 453/2023), il Tribunale Varesino ha ritenuto provata l’esistenza del mutuo orale tra parenti a fronte della produzione in giudizio delle distinte di bonifico recanti causale “prestito” (trattandosi di strumenti di pagamento tracciabili), nonché della dichiarazione d’un teste che ha confermato l’impegno assunto dai convenuti di restituire il prestito agli attori entro una determinata scadenza poi non rispettata. 

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Diritto Civile

Il problema delle irregolarità urbanistiche nella comunione ereditaria

CORTE DI APPELLO DI FIRENZE SENTENZA N. 434/2023

Quando ad una stessa persona sono chiamate a succedere più persone (coeredi) sui beni che formano l’asse ereditario si realizza una comunione, che prende il nome di comunione ereditaria la quale, a differenza della comunione ordinaria, è composta non da un solo diritto ma da una pluralità di diritti e doveri di diversa natura tra essi eterogenei (diritti reali, di credito, immateriali etc).

La comunione ereditaria si scioglie, e dunque cessa, con la divisione, le cui modalità possono essere previste dal testatore nel testamento oppure per accordo tra coeredi (c.d. divisione contrattuale) o, ancora, ove gli eredi si trovino in disaccordo, per opera del giudice (c.d. divisione giudiziale): sciogliendo la comunione il coerede diviene titolare esclusivo di una parte dei beni comuni rispondenti alla quota a lui spettante nello stato di comunione.

Ciascun coerede ha diritto di chiedere lo scioglimento della comunione ereditaria, sostanziandosi tale diritto in un diritto potestativo ed imprescrittibile e tutti i coeredi devono partecipare, a pena di nullità della divisione, alla stessa.

Alla divisione non può procedersi nei seguenti limitati casi: quando le parti, mediante accordo, abbiano deliberatamente deciso di rimanere nello stato di comunione (c.d. patto di indivisione); quando il testatore disponga il rinvio della divisione; quando il giudice abbia disposto la sospensione della divisione su richiesta di uno dei coeredi; ex lege, come nel caso di presenza nascituri.

Oggetto della divisione sono tutti i beni in comunione ereditaria anche se, su accordo dei coeredi, è possibile procedere ad una divisione parziale.

Fasi della divisione sono:

  • Formazione della massa ereditaria;
  • Stima dei beni;
  • Formazione del progetto di divisione;
  • Assegnazione o attribuzione delle porzioni concrete.

Cosa accade se tra i beni caduti in comunione ereditaria c’è un immobile per il quale è stata riscontrata una irregolarità urbanistica?

Sul tema si sono susseguite diverse interpretazioni giurisprudenziali: secondo un primo orientamento (ex multis Cass. Civ. n. 8147/2000), risalente, lo scioglimento della comunione ereditaria sarebbe invalido, essendo ravvisata, in ossequio all’art. 1418 comma 3 c.c., una nullità testuale; secondo altro orientamento (ex multis Cass. Civ. n. 2359/2013), opposto, la nullità comminata era da ricondursi all’alveo dell’art. 1418 comma 1 c.c. e, dunque, avrebbe dovuto essere trattata alla stregua d’una nullità sostanziale.

In seno a tale ultimo orientamento, poi, alcuni ritenevano che la presenza di un abuso portasse alla nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto, altri per illiceità dell’oggetto.

Ancora, secondo altra giurisprudenza, dirimente era l’anno di costruzione del fabbricato, non essendo possibile comminare, alla stregua della interpretazione strettamente letterale della L. n. 47/1985 (oggi superata dal Testo Unico Edilizia), la sanzione della nullità per atti di scioglimento di comunione ereditaria avente ad oggetto fabbricati abusivi non sanati, costruiti prima dell’entrata in vigore di detta legge.

A comporre il contrasto sono intervenute, nel 2019, le sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass. Civ. SS. UU. n. 8230/2019), affermando la linea interpretativa a mente della quale sono da leggersi in combinato disposto l’art. 17 e l’art. 40 della L. n. 47 del 1985 e, dunque, in tema di invalidità del contratto (di scioglimento della comunione ereditaria), sono da ritenersi nulli, ai sensi dell’art. 1418 comma 3 c.c. (nullità testuale), gli atti tra vivi, ivi compreso lo scioglimento della comunione, relativi a fabbricati, o parti di essi, in caso di assenza d’una specifica regolarizzazione e ciò, peraltro, indipendentemente dall’anno di edificazione dell’immobile.

Si registra, inoltre, una recente pronuncia della Corte di Appello di Firenze (Corte App. Firenze, sez. III, n. 434/2023) che chiarisce che, in presenza di abusi edilizi, il giudice non può disporre lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria che sia) senza la dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato una condizione dell’azione di divisione sotto il profilo della possibilità giuridica e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.

Tale mancanza, dunque, diviene rilevabile d’ufficio dal Giudicante in ogni stato e grado del procedimento.

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Diritto Lavoro e Previdenza

Gestione Separata INPS: prescrizione delle pretese contributive

CORTE DI APPELLO DI MILANO SENTENZA N. 659 DEL 01.08.2023

La Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 659/2023 ha ribadito la correttezza delle tesi di un commercialista, codifeso dall’Avv. Giacomo Mastrorosa, nel giudizio che lo vedeva contrapposto all’INPS avente ad oggetto un avviso di addebito per pretesi contributi previdenziali non versati.

Il professionista, che dal 2011 risultava preiscritto e in regola con il pagamento dei contributi dovuti alla “Cassa Ragionieri”, nell’agosto 2018 riceveva dall’INPS comunicazione di iscrizione d’ufficio alla gestione separata Liberi Professionisti, con relativa imposizione contributiva.

Nel dicembre 2021, gli veniva notificato un avviso di addebito per il mancato pagamento di contributi asseritamente accertati e dovuti a titolo di “Gestione Separata”, relativamente ai mesi da gennaio a dicembre 2012.

Il professionista impugnava tempestivamente l’avviso di addebito eccependo, in via preliminare, la prescrizione della pretesa contributiva e sostenendo, in ogni caso, l’errata iscrizione d’ufficio alla Gestione Liberi Professionisti e, di conseguenza, che nessun contributo dovesse essere da lui versato.

L’INPS resisteva in giudizio osservando che in caso di omessa compilazione del Quadro “RR”, come nel caso di specie, si determina la sospensione della decorrenza del termine prescrizionale. Pertanto nel giudizio promosso dal commercialista i crediti contributivi non si sarebbero prescritti.

La Corte di Appello di Milano, confermando quanto già espresso dal Tribunale di Varese, allineandosi ai più recenti orientamenti espressi dalla Corte di Cassazione, ha affermato che non sussiste alcun automatismo tra la mancata compilazione del Quadro “RR” nella dichiarazione dei redditi e l’occultamento doloso del debito contributivo. Di conseguenza non avendo l’INPS “allegato, dedotto e provato o offerto di provare un impedimento insormontabile all’esercizio dei propri poteri di controllo, nella fattispecie non può dirsi operante la causa di sospensione di cui all’articolo n. 2941 n. 8 c.c.”. La Corte ha quindi respinto le pretese creditorie dell’INPS in quanto non dovute, per intervenuta prescrizione.

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Diritto Civile

Assegno di mantenimento: il pagamento diretto del terzo obbligato

Tra le novità introdotte dal D.lgs. n. 149 del 10 ottobre 2022 (c.d. riforma Cartabia) vi è l’art. 473 bis.37 c.p.c. rubricato “pagamento diretto del terzo”. Tale norma ha uniformato la frammentaria disciplina di cui all’art. 8. L. n. 898/1970 -oggi abrogato-, all’art. 156 c.c. ed all’art. 3 L. n. 219/2012, facendo confluire in un’unica disposizione la disciplina riferita al diritto del creditore, al quale non è stato versato il contributo al mantenimento, ad ottenerne il pagamento diretto da parte del terzo.

La normativa previgente appariva disomogenea e mutevole a seconda che ci si trovasse nell’ambito della separazione, del divorzio o del contributo economico disposto in favore di figli nati fuori dal matrimonio. In particolare, precedentemente all’introduzione dell’articolo in commento, per ottenere il pagamento diretto dell’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione era necessario l’intervento del giudice mentre, in caso di divorzio o a tutela dell’assegno di mantenimento per figli di genitori non coniugati, era possibile attivare la procedura stragiudiziale prevista dall’art. 8 L. n. 898/1970.

La novella normativa in parola ha introdotto, dunque, un’unica procedura stragiudiziale analoga a quella di cui all’art. 8 della citata L. n. 898/1970, utilizzabile per dare attuazione a tutti i provvedimenti emessi in materia familiare (separazione, divorzio od afferenti alla prole nata fuori dal matrimonio).

Mediante tale rimedio è possibile ottenere il pagamento dei crediti derivanti dal contributo al mantenimento direttamente da un soggetto terzo il quale, a sua volta, è debitore dell’obbligato inadempiente. Trattasi di tutela avente funzione preventiva: riguarda le sole mensilità future che il terzo è tenuto a versare periodicamente al debitore principale (ad esempio in forza di un rapporto di lavoro o pensionistico) non escludendosi tuttavia le corresponsioni una tantum purché specificamente determinate.

L’iter è il seguente: i) il creditore del mantenimento (stabilito in favore suo o della prole) deve dapprima costituire in mora il debitore inadempiente; ii) successivamente, decorsi trenta giorni dalla costituzione in mora senza ricevere il pagamento, il beneficiario può notificare al terzo il provvedimento -o l’accordo di negoziazione assistita- che dispone l’assegno, con richiesta di versargli direttamente le somme dovute, dandone al contempo comunicazione all’obbligato originario.

Conseguentemente, dal mese successivo a quello della notifica della richiesta di pagamento diretto, il terzo è tenuto a pagare l’assegno sino alla concorrenza delle somme da esso dovute al debitore principale. S’instaura pertanto un vero e proprio rapporto di debito-credito tra il beneficiario dell’assegno ed il terzo tale per cui, laddove quest’ultimo a sua volta non dovesse adempiere al pagamento, il primo potrebbe promuovere azione esecutiva direttamente nei suoi confronti.

Ove al momento della notifica della richiesta il credito dell’obbligato verso il terzo sia già stato sottoposto a pignoramento da altri creditori, è previsto che all’assegnazione e ripartizione delle somme debba provvedere il Giudice della procedura esecutiva (ove il coniuge creditore potrà intervenire) tenuto conto della natura e finalità dell’assegno.

Elemento di discontinuità rispetto alla Legge Divorzile si ha nei casi di credito da rapporto di lavoro, ove il legislatore della riforma ha eliminato il limite della metà dell’importo complessivamente dovuto all’obbligato a titolo retributivo; limite -oggi venuto meno- oltre il quale, a mente della previgente disciplina il datore di lavoro non era tenuto ad effettuare il pagamento diretto al creditore del mantenimento.

Le modifiche introdotte dall’art. 473 bis.37 c.p.c. producono effetto a far data dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente.

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Pacchetti turistici e danno da vacanze rovinate

Il codice del turismo, così come novellato dal D.Lgs. n. 62/2018, disciplina i) i pacchetti turistici – intendendosi per talii pacchetti in cui vi è la combinazione di almeno due tipi di servizi turistici (trasporto di passeggeri, noleggio auto, etc) – offerti in vendita o venduti da professionisti ai viaggiatori e ii) i servizi turistici collegati la cui offerta o vendita ai viaggiatori è agevolata da professionisti, esclusi pacchetti e servizi turistici collegati la cui durata sia inferiore alle 24 ore e, ancora, iii) i pacchetti e servizi turistici collegati la cui offerta o vendita ai viaggiatori sia agevolata da imprese turistiche senza scopo di lucro, laddove agiscono occasionalmente.

In tali ipotesi, l’organizzatore è responsabile dell’esecuzione dei servizi previsti dal contratto di pacchetto turistico, indipendentemente dal fatto che tali servizi debbano essere prestati dall’organizzatore stesso, dai suoi ausiliari o preposti quando agiscono nell’esercizio delle loro funzioni, dai terzi della cui opera si avvale o, infine, da altri fornitori di servizi turistici.

Eventuali difetti di conformità rilevati durante l’esecuzione di un servizio turistico devono essere tempestivamente comunicati dal viaggiatore all’organizzatore: l’organizzatore è tenuto a porre rimedio al difetto di conformità entro un ragionevole periodo, salvo il diritto del viaggiatore di ovviare personalmente al difetto e chiedere il rimborso delle spese.

Se un difetto di conformità é tale da integrare gli estremi di un inadempimento di non scarsa importanza (ex art. 1455 c.c.) e l’organizzatore non vi ha posto rimedio, il viaggiatore può risolvere di diritto il contratto di pacchetto turistico o chiedere una riduzione del prezzo, salvo comunque l’eventuale risarcimento dei danni subiti.

Nel caso in cui l’inadempimento delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto non sia di scarsa importanza, il viaggiatore può chiedere all’organizzatore o al venditore, oltre alla risoluzione del contratto, anche il risarcimento del danno da vacanza rovinata, correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso e all’irripetibilità dell’occasione perduta.

Tale danno, infatti, si sostanzia nel pregiudizio arrecato al turista per non aver potuto godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di piacere, svago o riposo senza soffrire il disagio psicofisico che accompagna la mancata realizzazione in tutto o in parte del programma previsto.

Il c.d. danno da vacanza rovinata costituisce una voce di danno non patrimoniale, che trova fondamento nell’art. 2059 c.c., che deve essere distinta dal vero e proprio danno patrimoniale consistente nella perdita economica subita.

Ai sensi dell’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale da vacanza rovinata costituisce uno dei casi previsti dalla legge di pregiudizio risarcibile: spetta al giudice procedere alla valutazione della domanda risarcitoria alla stregua dei generali principi di correttezza e buona fede e alla considerazione dell’importanza del danno, fondata sul bilanciamento, per un verso, del principio di tolleranza delle lesioni minime e per altro verso, della condizione concreta delle parti (Cass. Civ. 17724/2018).

Con riguardo alla prescrizione, il diritto al risarcimento da vacanza rovinata si prescrive in tre anni decorrenti dalla data del rientro del viaggiatore nel luogo di partenza (Cass. Civ. n. 5271/2023), o nel più lungo periodo previsto per il risarcimento del danno alla persona dalle disposizioni che regolano i servizi compresi nel pacchetto.

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Diritto Civile

Vizi e difetti nell’appalto: termini per la tutela del committente

TRIBUNALE DI VARESE sentenza n. 533/2023

Con una recente pronuncia il Tribunale di Varese è tornato ad esprimersi in tema di appalto, sulle garanzie cui l’appaltatore è tenuto in favore del committente.

L’art. 1667 c.c. enuclea un rimedio di natura contrattuale esperibile nel caso in cui l’opera appaltata, una volta completata, presenti difformità e vizi ovvero sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole dell’arte.

Per ricorrere a tale rimedio il committente deve, a pena di decadenza, denunciare le anomalie riscontrate entro sessanta giorni dalla scoperta, nonché – in ipotesi – agire in giudizio entro il termine di prescrizione biennale dalla consegna del bene.

Al fine dell’operatività – o meno – di detta garanzia, riveste fondamentale importanza la distinzione tra difformità, vizi c.d. apparenti (conosciuti o riconoscibili) e vizi c.d. occulti (non riconoscibili): la garanzia, infatti, è operativa nelle sole ipotesi di vizi occulti.

In tal senso, una recente pronuncia del Tribunale di Varese (Sentenza n. 533/2023), ripercorrendo incidentalmente i principi generali in tema di contratto d’appalto, ha affermato, rifacendosi alla maggioritaria giurisprudenza di legittimità, che l’onere di denuncia ex 1667 c.c. è riferibile “ai soli vizi occulti e non a quelli palesi, posto che in quest’ultimo caso il committente, non accettata l’opera, non è tenuto ad adempimenti ulteriori, in quanto l’appaltatore, a seguito della mancata accettazione, può controllare l’esistenza di vizi ed eventualmente provvedere anche alla loro eliminazione”.

Qualora i vizi fossero palesi, dunque, si rientrerebbe del diverso caso di applicabilità dell’art. 1665 c.c., con la conseguenza che il committente potrebbe perdere il diritto alla garanzia se accettasse senza riserve l’opera affetta da difformità o vizi – da lui conosciuti o riconoscibili -, fatti salvi i soli casi in cui le anomalie fossero state in malafede sottaciute dall’appaltatore.

La richiamata pronuncia di merito, infine, ha rimarcato come il termine decadenziale di sessanta giorni inizi a decorrere “dalla percezione del nesso causale tra il segno esteriore del vizio e l’opera” o, in altri termini, da quando il committente matura un apprezzabile grado di conoscenza dei vizi e della loro derivazione causale dall’imperita esecuzione dei lavori compiuti dall’appaltatore.

Con riguardo alla tutela prevista e disciplinata dall’art. 1669 c.c., invece, la speciale garanzia per rovina e difetti di cose immobili integra un rimedio extracontrattuale, contemplato dal Legislatore per finalità d’interesse generale quali la stabilità, la solidità, l’efficienza, la durata dell’opera, la sicurezza e funzionalità degli edifici, nonché da ultimo, ma non per importanza, la tutela dell’incolumità dei cittadini.

I termini individuati dalla norma per far valere la responsabilità dell’appaltatore sono tre, tra loro interdipendenti (nel senso che la responsabilità non può essere fatta valere qualora anche solo uno di essi non sia rispettato): il primo, decennale, attiene al rapporto sostanziale tra committente ed appaltatore; il secondo, annuale, inerisce alla decadenza dalla garanzia, mentre il terzo integra un termine annuale di prescrizione dell’azione decorrente dal giorno in cui vengono denunciati i difetti.

Con riguardo al secondo, annuale, anche in questo caso esso decorre dal giorno in cui il committente raggiunge un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera.

Il Tribunale di Varese afferma che tale grado di conoscenza può essere immediato se si tratta di difetti palesi (quali cadute, rovine estese, etc..), mentre consegue all’acquisizione d’indagini tecniche in caso di difetti non evidenti.

In entrambe le fattispecie normative richiamate l’onere di provare la tempestività della denuncia grava sul committente (e non già sul costruttore), atteso che essa integra elemento costitutivo del diritto di garanzia e, quindi, rappresenta una condizione necessaria dell’azione.

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Appalti e diritti reali Diritto Civile

I termini per far valere la garanzia per vizi e difetti nell’appalto

CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, 16/06/2022, N.19343

La garanzia per i vizi e difetti a cui è tenuto l’appaltatore è regolata da precisi limiti temporali.

La regola generale, dettata dall’art. 1667 c.c., individua due momenti.

Il primo: il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denuncia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.

Si può parlare di scoperta, momento da cui decorrono i sessanta giorni, quando “il committente abbia conseguito un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti” (Cassazione civile sez. II, 31/05/2011, n. 12030).

La Cassazione ha tuttavia chiarito che “per la piena e completa conoscenza dei vizi e delle loro cause non è necessario che, ai fini della denuncia, sia previamente espletato un accertamento peritale, qualora i vizi medesimi, anche in assenza o prima di esso, presentino caratteri tali da poter essere individuati nella loro esistenza ed eziologia” (Cassazione civile sez. II, 16/06/2022, n. 19343)

Il secondo: il diritto del committente al risarcimento si prescrive se, a seguito della tempestiva denuncia, non agisce contro l’appaltatore entro due anni dal giorno della consegna dell’opera.

La prescrizione invece non opera in un caso particolare, ovvero quanto il committente è citato in giudizio da parte dell’appaltatore (il che spesso avviene per ottenere il pagamento del corrispettivo). Infatti in questo caso il committente può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna.

Vi è poi una regola speciale, prevista dall’art. 1669 c.c., che riguarda solo gli immobili: se nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.

In questo caso, però, il committente deve agire entro un anno dalla denunzia, pena la prescrizione del diritto.

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Diritto Civile

Limiti alla garanzia per vizi e difetti nell’appalto: l’accettazione delle opere

Ai sensi dell’art. 1667 c.c., una volta terminati i lavori e consegnata l’opera commissionata, l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera.

La garanzia tuttavia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché, in questo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore.

Posto che l’eventuale accettazione può avvenire solo a seguito dell’effettiva consegna, il committente ha il diritto (e il dovere) di verificare la qualità e l’idoneità delle lavorazioni oggetto del contratto, che potrà avvenire anche durante lo svolgimento dei lavori.

È bene evidenziare che l’accettazione può essere espressa, ma anche tacita (o per “facta concludentia”). A quest’ultimo proposito si pensi che se la verifica viene omessa immotivatamente, oppure se gli esiti dei controlli non vengono comunicati entro un congruo termine, oppure se il committente riceve la consegna senza formulare alcun rilievo, l’opera si intende accettata.

Il profilo dell’accettazione tacita è stato recentemente analizzato da parte della giurisprudenza di legittimità, con la sentenza n. 14052 del 2020.

Con la pronuncia citata, la Cassazione ha dapprima distinto i due momenti focali: la consegna, da intendersi come “un atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente” e l’accettazioneche “esige che il committente esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell’opera stessa, con conseguente manifestazione negoziale che comporta effetti ben determinati, quali l’esonero dell’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera ed il conseguente suo diritto al pagamento del prezzo”. È seguita poi l’interpretazione dell’istituto giuridico in questione: “l’art. 1665 c.c., poi, pur non enunciando la nozione di accettazione tacita dell’opera, indica i fatti e i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza dell’accettazione da parte del committente e, in particolare, al quarto comma, prevede come presupposto dell’accettazione (da qualificare come tacita) la consegna dell’opera al committente (alla quale è parificabile l’immissione nel possesso) e come fatto concludente la ricezione senza riserve da parte di quest’ultimo, anche se non si sia proceduto alla verifica”.

Come scritto, i vizi sono quelli palesi cioè quelli conosciuti o riconoscibili dal committente. La riconoscibilità deve essere valutata rispetto al momento della verifica e valutata in base alle cognizioni medie del soggetto che concretamente la effettua (quindi ordinaria diligenza se è un profano, oppure perizia nel caso di un tecnico).

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Appalti e diritti reali Diritto Civile

Quali sono i vizi e i difetti coperti dalla garanzia in materia di appalto?

Ai sensi dell’art. 1667 c.c., una volta consegnata l’opera commissionata, l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera.

Le difformità consistono nella non corrispondenza tra l’opera eseguita e le prescrizioni contrattuali e/o le caratteristiche del progetto consegnato o sottoposto all’appaltatore.

Si parla di vizi in assenza di qualità o caratteristiche, per il mancato rispetto o del contratto o delle regole della tecnica o dell’arte esigibili al momento dell’esecuzione dei lavori. Ad esempio, con sentenza 25/01/2022, n. 2226, la Cassazione ha affermato che “l’accertamento dell’eventuale responsabilità per un vizio inerente all’isolamento acustico deve essere attuato tenendo conto delle norme tecniche di insonorizzazione degli edifici e dei canoni tecnici sulle sorgenti sonore suggerite dalle ordinarie regole dell’arte”.

È utile ricordare che, ai fini della garanzia prevista dal citato articolo, i vizi e le difformità devono avere un grado minimo di apprezzabilità, posto che non esiste e non si può pretendere la perfezione. Non a caso, particolarmente in ambito edilizio, sono spesso stabilite delle tolleranze di lavorazione all’interno delle quali l’opera può dirsi compiuta a regola d’arte.