Studio Legale Campiotti Mastrorosa

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Guida in stato di ebbrezza: sospensione cautelare della patente

GIUDICE DI PACE DI RHO, ORDINANZA 12.08.2024

Lo studio legale Campiotti Mastrorosa si è recentemente occupato di un caso riguardante la guida in stato di ebrezza alcolica e i limiti connessi alla conseguente sospensione della patente di guida.

Nel nostro ordinamento giuridico, la guida in stato di ebrezza alcolica è disciplinata dall’art. 186 del Codice della Strada (C.d.S.).

Il comma 2 del predetto articolo distingue tre diverse soglie di tasso alcolemico.

  1. la prima soglia (art. 186, comma 2, lett. a) ricomprende i valori di tasso alcolemico superiori a 0,5 g/l e non superiori a 0,8 g/l; in questo caso è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria, trattandosi di mero illecito amministrativo, e la sospensione della patente da tre a sei mesi
  2. la seconda soglia (art. 186, comma 2, lett. b) ricomprende i valori di tasso   alcolemico superiori a 0,8 g/l e non superiori a 1,5 g/l; questa ipotesi, considerata dalla Legge come reato, è punita con le pene congiunte dell’ammenda e dell’arresto e della sospensione della patente da sei mesi a un anno;
  3. la terza soglia (art. 186, comma 2, lett. c) si riferisce al tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l;in questo caso la legge prevede che il fatto venga sanzionato con le pene congiunte dell’ammenda e dell’arresto (comminate nella misura massima della cornice edittale), oltre che con la confisca obbligatoria del veicolo, e della sospensione della patente da uno a due anni.

Nelle ipotesi regolate dalle lettere b) e c), gli operanti ritirano la patente al guidatore e la trasmettono al Prefetto, il quale, ai sensi dell’art. 223 C.d.S., in via cautelare, dispone la sospensione della patente fino a un massimo di due anni.

A tal proposito, bisogna considerare due aspetti: il primo è che il provvedimento prefettizio incide su un fatto per il quale non è ancora intervenuto un accertamento in sede penale ed ha, infatti, una funzione anticipatoria della sanzione accessoria (Cassazione civile sez. VI, 27/06/2017).

Il secondo è che, fatta eccezione per i casi previsti dal comma 2-bis del citato art. 186 C.d.S., la pena detentiva e quella pecuniaria possono essere sostituite con il lavoro di pubblica utilità (LPU – ex art. 54, D.Lgs n. 274/2000).

Ai sensi dell’art. 186 co. 9 bis cds: ‘‘il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze.’’ 

Qualora il lavoro di pubblica utilità sia stato svolto positivamente, il Giudice fisserà una nuova udienza al fine di dichiarare estinto il reato e di ridurre alla metà la durata della sanzione della sospensione della patente.

Paradossalmente, nelle more del giudizio (durante l’espletamento dei lavori di pubblica utilità o, addirittura, al termine degli stessi) il soggetto potrebbe avere già patito un periodo di sospensione della patente di guida – disposta dal Prefetto – superiore rispetto a quella che poi, in caso di esito positivo dei lavori di pubblica utilità, verrebbe inflitta in concreto.

Nel caso che ha occupato lo Studio, dalle rilevazioni effettuate dalla Polizia Stradale, risultavano valori di 0,85 e 0,87 g/l: un valore di poco superiore alla soglia della lettera b.

Il Prefetto di Milano disponeva la sospensione della patente di guida per sei mesi.

Il provvedimento prefettizio è però apparso a prima vista errato.

Infatti, il Prefetto nello stabilire la durata della sospensione, avrebbe dovuto valutare che era ragionevole ritenere che l’eventuale condanna alla pena accessoria a carico del guidatore, che non aveva precedenti penali, sarebbe stata irrogata nel minimo, ossia in sei mesi.

Potendo lo stesso optare per la sostituzione della pena con i LPU, la conseguenza sarebbe l’ottenimento della riduzione della sospensione della patente per un periodo complessivo di tre mesi.

In definitiva, in considerazione anche delle tempistiche del processo penale, il rischio per il cliente sarebbe stato quello di patire una sospensione della patente, in via cautelare, superiore a quella definitiva.

Per tali motivi è stato presentato ricorso al Giudice di Pace di Rho, che, in attesa della decisione nel merito della vicenda, con ordinanza del 12.08.2024 ha sospeso cautelarmente l’esecutorietà del provvedimento prefettizio nella parte in cui – non valutando le peculiarità del caso concreto – prevedeva una sospensione di mesi sei della patente di guida.

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Diritto Civile

Diritto dell’ex coniuge alla quota dell’indennità di fine rapporto

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE, SENTENZA 07/03/2024 N. 6229

L’art. 12 bis della L. 898/1970 prevede il diritto per l’(ex) coniuge, nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ad ottenere una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro (ex) coniuge nel momento in cui cessa ogni rapporto di lavoro.

Tale quota è pari al 40% della totale indennità riferibile agli anni in cui erano pendenti il rapporto di lavoro ed il matrimonio.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 6229 del 7 marzo 2024, ha però stabilito che, seppur rientranti nell’alveo del succitato articolo sia le indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici, sia le indennità riferite ai rapporti di lavoro parasubordinato, non rientrano, invece, tra gli altri, gli incentivi all’esodo (escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 12 bis della L. n. 898/1970 sono anche le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa; l’indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco; l’indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento).

Sul punto si erano registrati già in passato orientamenti contrastanti: il più recente (ex multis Cass. Civ. 14171/2014) era nel senso di includere gli importi di incentivo all’esodo nell’alveo dell’art. 12 bis, sul rilievo che si tratterebbe di somme che non hanno alcuna natura liberale o eccezionale e che costituirebbero una semplice controprestazione alla risoluzione anticipata del rapporto di lavoro.

Altro orientamento (ex multis Cass. Civ. 19309/2003), più risalente, invece, escludeva la possibilità di ricomprendere l’incentivo all’esodo nell’alveo dell’art. 12 bis in quanto tale articolo sarebbe stato riferibile solamente a tutte quelle prestazioni indennitarie – indipendentemente da come chiamate – che maturano a far data dal termine del rapporto di lavoro, determinate proporzionalmente alla durata del rapporto e all’entità della retribuzione percepita in costanza di rapporto, i quali sarebbero caratteri non ricorrenti nei casi di incentivo all’esodo.

Le Sezioni Unite, evidenziando come la ratio dell’art. 12 bis debba essere ravvisata in quella d’una – postergata – compartecipazione alle fortune economiche costruite dai coniugi in costanza di matrimonio, hanno affermato il principio di diritto a mente del quale la quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della L. n. 898 del 1970, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore.

Ciò in quanto l’attribuzione d’una quota di indennità di fine rapporto – limitatamente ai soli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio – avrebbe un duplice fine, assistenziale e perequativo-compensativo, e si ricollegherebbe all’incremento del patrimonio prodotto, in costanza di rapporto, dal lavoro di coniuge e dell’indiretto contributo dell’altro.

L’incentivo allesodo, al contrario, non configurandosi come retribuzione differita, accantonata nel corso del rapporto di lavoro e divenuta esigibile alla cessazione del rapporto stesso, non rientra nella quota dell’indennità di fine rapporto spettante al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze.

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Diritto Civile

Fideiussione e normativa antitrust

TRIBUNALE DI VARESE, SENT. 23/04/2024 N. 448

Il Tribunale di Varese con la Sentenza n. 448/2024 del 23.04.2024, in un caso seguito dallo Studio Legale Campiotti si è recentemente espresso sulla conseguenza della violazione della normativa Antitrust in caso di fideiussioni omnibus o fideiussioni specifiche.

La fideiussione è una tipica garanzia personale.

L’art. 1936 c.c. definisce fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui.

Fonte dell’obbligo del fideiussore può essere sia la legge sia la volontà privata.

L’obbligazione del fideiussore si estingue: i) a causa dell’estinzione dell’obbligazione del debitore originario; ii) attraverso i normali modi di estinzione delle obbligazioni; iii) quando, per fatto imputabile al creditore non è più realizzabile la surrogazione del fideiussore nei diritti del creditore; iv) quando, in caso di fideiussione per un’obbligazione futura, il creditore ha fatto credito al terzo senza autorizzazione del fideiussore, pur conoscendo che le condizioni patrimoniali di questo erano divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito; v) quando il creditore, entro sei mesi della scadenza dell’obbligazione principale, non ha proposto le sue istanze contro il debitore o non le ha diligentemente coltivate.

Sull’ultimo punto, la giurisprudenza ha affermato che per istanza debba intendersi ogni iniziativa di carattere giudiziale assunta secondo le forme prescritte dal codice di rito in relazione al tipo di tutela domandato (Cass. Civ. n. 25197/2023): non basta la notifica di un atto stragiudiziale come la nota pro forma o il precetto non seguito dall’esecuzione.

Nelle ipotesi in cui le parti, però, abbiano pattiziamente previsto che il garante debba adempiere a seguito della “semplice richiesta” del creditore (c.d. garanzia a prima richiesta), la domanda di pagamento inviata in via stragiudiziale può, e deve, essere considerata una valida istanza (Cass. Civ. n. 22346/2017).

Diversamente argomentando, infatti, la garanzia perderebbe il suo significato di garanzia a prima richiesta.

Tanto premesso, ai sensi dell’art. 1938 c.c. la fideiussione può essere anche prestata per un’obbligazione futura o condizionale: si ritiene che sia condizione di validità l’esistenza di un rapporto di fatto tra le parti dal quali risulti probabile l’insorgere di un credito.

Particolare tipo di fideiussione per obbligazioni future è la fideiussione omnibus, che si ha quando un soggetto si obbliga a garantire (per lo più nei confronti di una banca) l’adempimento di ogni obbligazione già sorta o che sorgerà a carico di un altro soggetto senza la previsione né di limiti di durata né di limiti quantitativi.

L’art. 1938 c.c. è stato modificato dall’art. 10 della L. 154/1992 in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, il quale ha imposto la previsione dell’importo massimo garantito.

Gli istituti bancari, nell’ambito dei rapporti contrattuali con la clientela, generalmente si avvalgono di schemi negoziali predisposti dall’Associazione Bancaria Italiana (o ABI).

Nel 2005, La Banca d’Italia ha dichiarato contrarie alla disciplina antitrust alcune clausole contenute nello schema negoziale per il contratto di fideiussione omnibus.

In tale contesto, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021, ha chiarito cosa accade qualora, nel contratto di fideiussione concluso tra la banca e il cliente, siano riportate proprio le clausole dello schema ABI dichiarate in contrasto con la disciplina antitrust: in detto caso, il rimedio applicabile è quello della nullità parziale.

Infatti, qualora nel contratto di fideiussione siano riportate pedissequamente le clausole dichiarate nulle, si applicherebbe il principio di conservazione degli atti negoziali a mente del quale la fideiussione omnibus sarebbe nulla limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito. Il principio verrebbe derogato, con conseguente nullità dell’intero contratto, solo qualora venga dimostrata la diversa volontà delle parti nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi ravvisato – della parte del contratto colpita da nullità.

Tali principi non si applicano, per converso, a fideiussioni specifiche (rectius non omnibus) (cfr. Trib. Milano n. 7015/2022; Trib. Milano n. 5481/2022; Corte Appello Milano n. 3082/2022). Questo orientamento è stato di recente confermato anche dal Tribunale di Varese (Trib. Varese, Sentenza n. 448/2024 del 23.04.2024).

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Diritto Civile

Rendita perpetua e rendita vitalizia

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. III, 26/03/2024 N. 8116

Il termine rendita indica qualsiasi prestazione a carattere periodico che abbia ad oggetto denaro o altra quantità di cose fungibili.

Il contratto di rendita ha in genere la funzione e lo scopo di convertire in prestazioni periodiche un capitale o un bene. Infatti, la costituzione di una rendita si attua mediante la consegna di un bene o il versamento di un capitale: chi lo riceve deve eseguire prestazioni periodiche come corrispettivo di una cessione onerosa o come onere di una attribuzione a titolo gratuito.

Si distinguono due fattispecie di rendita:

  1. la rendita perpetua è il contratto con cui una parte cede un immobile (rendita fondiaria) o una capitale (rendita semplice) all’altra parte, che in cambio le attribuisce il diritto di esigere in perpetuo la prestazione periodica di una somma di denaro o di una certa quantità di cose fungibili (art. 1861 cc). Al debitore è attribuito un diritto di riscatto: questi può liberarsi dal suo obbligo di prestazione periodica pagando la somma che risulta dalla capitalizzazione della rendita annua, sulla base dell’interesse legale (e tale diritto non può essere escluso per accordo tra le parti). Le parti, però, possono stabilire che il riscatto non si compia durante la vita del beneficiario o prima di un certo termine (sullo specifico punto, la legge fissa il limite di 10 anni nella rendita semplice e 30 in quella fondiaria);
  2. la rendita vitalizia è il contratto con cui una parte si obbliga a pagare una rendita al beneficiario per tutta la vita del beneficiario stesso o di un terzo. Il beneficiario può essere la stessa controparte o anche una persona diversa: in tale ultimo caso si ricorre all’istituto del contratto a favore di terzo. Normalmente la rendita vitalizia è un contratto a titolo oneroso in quanto l’obbligazione viene assunta dietro corrispettivo consistente nella cessione di un bene mobile, immobile o di un capitale, anche se non mancano casi in cui sia a titolo gratuito (con donazione o per testamento). La rendita vitalizia è un contratto aleatorio poiché l’entità della prestazione dipende da un fatto futuro ed incerto quale è la durata della vita umana: pertanto, il debitore non può liberarsi dall’obbligo di pagare la rendita, anche se il contratto è divenuto particolarmente oneroso. Nemmeno può liberarsene restituendo il capitale e rinunciando alle rate già pagate.

Ciò posto, con riguardo al contratto di rendita vitalizia si rileva che una recentissima sentenza della Suprema Corte (Cass. Civ. n. 8116/2024) ha affermato come in tema di accertamento dell’alea, la cui mancanza, trattandosi di elemento essenziale del contratto, ne determina la nullità, sia necessario verificare, sulla base delle pattuizioni negoziali, se sussisteva o meno tra le parti il requisito della “equivalenza del rischio“, cioè se al momento della conclusione del contratto era configurabile per il vitaliziato ed il vitaliziante un’uguale probabilità di guadagno o di perdita, dovendosi tenere conto, a tal fine, con riferimento alle prestazioni delle parti, sia dell’entità della rendita che della presumibile durata della stessa, in relazione alla possibilità di sopravvivenza del beneficiario; ne consegue che l’alea deve ritenersi mancante e, per l’effetto, nullo il contratto se, per l’età e le condizioni di salute del vitaliziato, già al momento del contratto era prefigurabile, con ragionevole certezza, il tempo del suo decesso e quindi possibile calcolare, per entrambe le parti, guadagni e perdite.

Tanto premesso, con riguardo ai profili problematici relativi all’istituto della rendita, si rileva come al creditore del cedente sia concessa l’azione revocatoria a salvaguardia dell’integrità del patrimonio del debitore, qualora quest’ultimo compia atti con i quali si spogli dei propri beni e li sottragga al soddisfacimento creditorio.

Presupposti per esperire tale azione, operata una valutazione di opportunità, sono: i) esistenza di un credito, anche se litigioso e non esigibile; ii) atto di disposizione inter vivos compiuto dal debitore; iii) diminuzione del patrimonio del debitore; iv) consapevolezza del debitore di arrecare, con il proprio atto, un pregiudizio al creditore.

L’onere di provare la consapevolezza dell’acquirente spetta a chi agisce in revocatoria.

Esperendo tale azione con esito vittorioso l’atto di cessione potrebbe essere dichiarato inefficace.

Ulteriore profilo problematico, in tema di rendita, riguarda l’eventualità che un erede legittimario possa esperire azione di riduzione: infatti, ove le prestazioni (cessione e rendita) – pur tenendo conto del tipico rischio insito nell’accordo – non siano proporzionate nel valore, il contratto potrebbe rivelare una simulazione, in quanto potrebbe nascondere una donazione lesiva delle quote di eredi legittimari. In tale ipotesi, il legittimario potrebbe agire a tutela della propria quota di legittima, chiedendo la riduzione, per quanto quivi ci occupa, delle donazioni eccedenti la quota di cui il de cuius poteva disporre (Cass. Civ. 7479/2013).

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Diritto Civile

La nomina dell’amministratore di sostegno

TRIBUNALE DI VARESE, Decreto del 04.03.2024

La capacità di agire è definibile come l’attitudine di un soggetto a compiere manifestazioni di volontà che siano idonee ad acquistare ed esercitare diritti e/o assumere obblighi.

La capacità di agire si acquista, salvo ipotesi particolari per cui è richiesta una diversa età, al momento della maggiore età e perdura – di regola – sino al momento della morte.

Nel corso della vita d’un soggetto, però, possono intervenire alcune cause che modificano la capacità di agire, limitandola od escludendola.

Sul punto, l’ordinamento prende in considerazione casi in cui un soggetto non è più in grado di compiere alcun tipo di atto, ed allora si ha riguardo alla c.d. incapacità assoluta di agire (tali sono i casi di: minore d’età, interdizione giudiziale ed interdizione legale), e circostanze in cui, invece, un soggetto è in grado di compiere solo alcuni atti, ed allora si ha riguardo alla c.d. incapacità relativa di agire (tali sono i casi di: emancipazione ed inabilitazione).

Di fronte alla – eventuale – perdita della capacità di agire, assoluta o relativa, l’ordinamento ricollega degli istituti c.d. di protezione, creati nell’interesse del soggetto incapace, che gli consentano, in diversa misura, l’esplicazione di attività giuridica che, altrimenti, gli sarebbe preclusa.

Al fine di sacrificare il meno possibile la capacità di agire, salvaguardandone maggiormente la libertà di autodeterminarsi, ed al fine ulteriore di potersi avvalere d’uno strumento dal contenuto non predeterminato ma parametrabile alle effettive esigenze del caso concreto, è stato introdotto nel 2004 l’istituto (di protezione) dell’amministrazione di sostegno, atto a tutelare le persone prive – in tutto o in parte – di autonomia.

A differenza dell’interdetto o dell’inabilitato, il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la necessaria rappresentanza o assistenza dell’amministratore di sostegno, e ciò alla luce delle specifiche necessità vagliate caso per caso dal Giudice Tutelare.

Pertanto, colui il quale sia incapace di provvedere ai propri interessi a causa di infermità, anche parziale o temporanea, ovvero di menomazione fisica o psichica, può oggi ricorrere al giudice tutelare affinché nomini, con decreto, un amministratore di sostegno. Quest’ultimo può essere o già individuato dal beneficiario (anche preventivamente con atto pubblico o scrittura privata autenticata), ovvero, in mancanza di indicazioni e/o in presenza di gravi ragioni, scelto direttamente dal giudice.

La figura dell’amministratore di sostegno presenta un peculiare vantaggio: allo stesso potrebbero essere anche attribuiti poteri di rappresentanza relativamente alle scelte sanitarie da intraprendere. Con riferimento ai compiti specifici dell’amministratore di sostegno in ambito sanitario, infatti, la giurisprudenza ha affidato a tale figura quello di manifestare il consenso ai trattamenti sanitari e terapeutici.

Con specifico riguardo ai presupposti per la nomina, lo Studio Legale Campiotti Mastrorosa ha patrocinato un procedimento che si è concluso con il decreto del Tribunale di Varese del 04.03.2024, con il quale è stato sancito che non è sufficiente la sola anzianità, malattia o disabilità d’un soggetto per rendere necessaria (ma nemmeno opportuna) la richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno.

Diversamente, infatti, qualunque malato, anziano o disabile dovrebbe ricorrere alla nomina dell’amministratore di sostegno, così istituzionalizzando e burocratizzando un istituto che comporta comunque vere e proprie limitazioni alla capacità di agire delle persone. Pertanto, tale misura di protezione sarebbe ricorribile nei soli casi in cui si riscontri, in concreto, al di là dell’età, della malattia o della disabilità, anche una concorrente sensibile riduzione della capacità di agire.

Nel caso in esame, nell’ambito della audizione del soggetto interessato, obbligatoria ex lege ai sensi dell’art 407 c.c., questi dichiarava espressamente la propria contrarietà alla disposizione della misura di sostegno. Il Giudice Tutelare di Varese ha evidenziato, che ove una persona ancorché affetta da patologia fisica e/o psichica, sia in grado comunque di determinarsi e sia, dunque, ritenuta consapevole, ben può esprimere il proprio dissenso e la sua volontà è vincolante per il Giudicante (così Cass. Civ. 22602/2017).

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Locazione e canone in nero

Ai sensi dell’art. 1571 c.c., la locazione è “il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile, per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo”.

Detto contratto è disciplinato, altresì, da leggi speciali: in particolare, la L. 431/1998 disciplina la locazione di immobili ad uso abitativo e la L. 392/1978 (abrogata in parte dalla L. 431/1998) disciplina le locazioni di immobili ad uso diverso dall’abitazione.

Il contratto si perfeziona con il semplice consenso legittimamente manifestato e produce effetti obbligatori tra le parti.

Sebbene il codice civile non prescriva una particolare forma per la conclusione d’un contratto di locazione (eccetto che per i contratti ultranovennali per cui è prevista la forma scritta a pena di nullità), le L.L. 431/98 e 392/78 prevedono, tuttavia, che ai fini della conclusione di un valido contratto la forma scritta, onde anche fornire una adeguata pubblicità all’atto. In difetto, il contratto è da ritenersi nullo e tale invalidità è rilevabile d’ufficio dal Giudice.

Scopo delle previsioni normative è quello di far emergere l’enorme numero di contratti c.d. in nero e contrastare l’evasione fiscale (cfr. anche Cass. Civ. SS.UU. n°18214/2015): le locazioni, infatti, sono sottoposte sia imposte dirette sia imposte indirette.

Il contrasto all’evasione fiscale è raggiunto anche con l’imposizione dell’obbligo, per il conduttore e per il locatore, di registrare qualunque contratto di locazione di beni immobili la cui durata ecceda i trenta giorni: la registrazione deve avvenire preso gli Uffici Territoriali dell’Agenzia delle Entrate entro il termine di trenta giorni successivi alla decorrenza dello stesso. In caso di mancata registrazione del contratto entro i termini di legge il contratto sarà affetto, ancora una volta, da nullità.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. SS.UU. n°23601/2017) sono più volte intervenute in materia, in primis chiarendo che l’omessa registrazione totale del contratto di locazione immobiliare, tale da rendere l’intero rapporto locatizio sconosciuto al fisco, comporta, come detto, la nullità dell’intero contratto per inadempimento dell’obbligo tributario, ancorché tale nullità sia sanabile retroattivamente per effetto dell’adempimento tardivo della formalità omessa.

In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato che nei casi in cui il canone effettivamente convenuto tra le parti sia di un importo superiore a quello riportato sul contratto d’affitto registrato – in tal caso si ha riguardo al c.d. “patto occulto di maggiorazione del canone” – ad essere affetto da nullità è solo il patto, e non già l’intero contratto, e non vi è possibilità di rimedi in sanatoria.

Nei casi di c.d. patto occulto di maggiorazione del canone è ragionevole chiedersi se e come recuperare l’eccedenza di canone versata in nero (extra rispetto al canone in chiaro convenuto).

Sullo specifico punto, l’art. 79 della L. 392/78 sancisce che il conduttore, entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, da intendersi quale termine di decadenza, può chiedere la ripetizione delle somme indebitamente corrisposte in misura superiore al canone concordato.

La richiesta di restituzione delle somme, peraltro, può essere avanzata anche in tutti quei casi in cui il contratto non sia mai stato registrato: qualora sia stato il locatore ad imporre al conduttore di non procedere alla registrazione, esercitando sullo stesso una sorta di violenza morale al fine di indurlo ad omettere tale adempimento, il conduttore avrà diritto alla restituzione dell’eccedenza pagata; qualora, invece, il contratto in nero sia frutto dell’(illegittimo) accordo tra le due parti, il locatore, da un lato, potrebbe agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile occupato senza titolo, mentre il conduttore potrebbe essere ristorato parzialmente delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente a quella del canone concordato.

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Diritto Civile

Il piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore

La ristrutturazione dei debiti è una procedura per la composizione della crisi da sovraindebitamento introdotta dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) in sostituzione dell’istituto del piano del consumatore di cui alla legge n. 3/2012.

Lo scopo del procedimento (al pari del concordato minore e della liquidazione controllata) è l’esdebitazione, ossia la liberazione dai debiti residui non soddisfatti: trattasi infatti di uno strumento giuridico mediante il quale è possibile rinegoziare i debiti e vedersi riconosciuto il diritto di pagarli diversamente da come inizialmente previsto, oppure di non pagarne una parte.

La procedura è riservata esclusivamente al consumatore definito dall’art. 2, lett. e), del CCII, quale persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta -anche se socia di una s.n.c., di una s.a.s. o di una s.a.p.a.-. Il sovraindebitamento rappresenta la condizione di crisi od insolvenza di un soggetto che non riesce a ripianare le obbligazioni assunte con istituti bancari e finanziari (es. mutui e presiti personali), pubbliche amministrazioni (Agenzia Entrate), fornitori o privati (es. debiti condominiali).

Per usufruire di tale strumento il consumatore non deve esser già stato esdebitato nei cinque anni precedenti la domanda od aver già beneficiato dell’esdebitazione per due volte, ovvero aver determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode.

La domanda di accesso alla procedura deve essere presentata presso il Tribunale del luogo in cui il debitore ha il centro principale dei suoi interessi tramite l’ausilio di un Organismo di composizione della crisi (OCC); detto Organismo ha altresì il compito di redigere una relazione – da allegare alla domanda introduttiva – contenente: l’indicazione delle cause dell’indebitamento; le ragioni dell’incapacità del debitore a soddisfare le obbligazioni; l’attendibilità dei documenti a supporto della richiesta; i presumibili costi della procedura.

La proposta di ristrutturazione deve indicare tempi e modalità per superare la crisi economica e può prevedere il soddisfacimento – anche parziale e differenziato – dei crediti in qualsiasi forma. Tra i debiti da rinegoziare è possibile indicare anche quelli derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del TFR o della pensione.

La ristrutturazione dei debiti è prevista anche in ambito familiare (art. 66 CCII) e, a differenza del concordato minore, non è sottoposta all’approvazione dei creditori insoddisfatti soggiacendo unicamente alla valutazione e controllo del Tribunale in composizione monocratica. Non è quindi necessario il voto favorevole della maggioranza dei creditori per ottenere l’esdebitazione, essendo a tal fine sufficiente solo che il piano venga omologato dal Giudice e che il debitore dia corretta esecuzione allo stesso.

Se il Tribunale ritiene ammissibile la domanda dispone con decreto la pubblicazione di proposta e piano sul sito web del Tribunale o del Ministero di Giustizia nonché la comunicazione di questi ai creditori entro 30 giorni; quest’ultimi hanno 20 giorni per proporre eventuali osservazioni.

Dal decreto di apertura della procedura possono conseguire rilevanti effetti.

Se il debitore lo richiede, vengono disposte le seguenti misure protettive del suo patrimonio: divieto di compiere atti di straordinaria amministrazione se non preventivamente autorizzati; sospensione dei procedimenti di esecuzione forzata che pregiudicherebbero la fattibilità del piano; divieto di azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del consumatore.

Il giudice omologa il piano con sentenza previa verifica dell’ammissibilità giuridica e fattibilità economica dello stesso e dopo la risoluzione di ogni questione, disponendone, ove necessario, la trascrizione a cura dell’OCC. In caso di diniego all’omologazione il tribunale dichiara l’inefficacia delle misure protettive eventualmente accordate e, su domanda del debitore (e, in caso di frode, su istanza del P.M. o di un creditore), dispone la conversione in liquidazione controllata se ne ricorrono i presupposti di legge.

Con la sentenza di omologazione e chiusura della procedura si avvia la fase di esecuzione che compete al debitore il quale, sotto la vigilanza dell’OCC, deve provvedere al compimento degli atti previsti nel piano ed ai pagamenti -od alle altre forme di adempimento- a favore dei creditori previsti nella proposta.

Eseguito correttamente il piano, l’OCC ne certifica la corretta esecuzione mediante presentazione di una relazione finale al Giudice; diversamente, in caso d’inadempimento agli obblighi ivi previsti (e negli altri casi previsti dall’art. 72 CCII) il Giudice revoca d’ufficio – o su istanza di un creditore, del pubblico ministero o di qualsiasi altro interessato – l’omologazione del piano in contraddittorio con il consumatore.

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Diritto Civile

Il concordato minore

Il concordato minore (già noto come accordo di composizione della crisi) è l’omologo della composizione negoziata della crisi d’impresa, ricorribile da soggetti, escluso il consumatore, che non sono assoggettabili alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali in caso di crisi o insolvenza.

Tale rimedio, a disposizione del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, e dei sovraindebitati, permette di ridurre il debito formulando una proposta ai creditori, per tramite d’un Organismo di Composizione della Crisi (OCC), in tutti quei casi in cui essa consenta di proseguire l’attività imprenditoriale o professionale o, ancora, in tutti quei casi in cui vi sia l’intervento di risorse esterne che forniscano garanzia di continuazione dell’attività e la soddisfazione dei creditori in misura maggiore rispetto a quanto questi potrebbero ottenere ricorrendo ad altri strumenti.

La domanda si presenta a un Organismo di Composizione della Crisi presente nel circondario del Tribunale competente (se non vi sono Organismi, le funzioni sono esercitate da professionisti in possesso di specifici requisiti, nominati dal Presidente del Tribunale, individuati tra gli iscritti all’albo dei gestori delle crisi).

Non è previsto un contenuto minimo della proposta di concordato, salva la fissazione di modalità e tempi entro i quali si presume di poter superare la situazione di squilibrio patrimoniale e/o economico-finanziario.

Alla domanda deve essere acclusa una relazione dettagliata predisposta dall’Organismo con l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza adottata nell’assumere obbligazioni, le ragioni che hanno determinato l’inadempienza debitoria agli impegni assunti, l’esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori, una valutazione sull’attendibilità e conformità dei documenti ricevuti dal debitore, una valutazione sulla convenienza del concordato rispetto ad altri istituti, una indicazione dei costi del procedimento nonché modalità e tempi, in caso di previsione positiva, di soddisfazione dei creditori e, infine, l’eventuale formazione di classi di creditori ove indicata nella proposta.

Il procedimento si svolge avanti al Tribunale in composizione monocratica.

La domanda viene dichiarata inammissibile nel caso in cui manchi la documentazione obbligatoria, qualora il debitore abbia dimensioni tali da eccedere i limiti di accesso all’istituto o, infine, qualora abbia già ricorso all’esdebitazione per due volte.

Il Giudice, valutata la domanda come ammissibile, dichiara aperta la procedura e ordina la comunicazione della proposta a tutti i creditori.

Con il decreto il Giudicante assegna anche un termine ai creditori, non superiore a trenta giorni, per poter esprimere all’Organismo l’eventuale adesione alla proposta formulata e presentare osservazioni.

Quale garanzia del debitore, su istanza dello stesso, il Giudice, sino all’omologa del concordato, può disporre che non siano iniziate o proseguite azioni esecutive, sequestri conservativi o, ancora, acquistati diritti di prelazione sul patrimonio del debitore da parte di creditori aventi titolo anteriore.

Con medesimo decreto, il Giudice nomina un commissario giudiziale affinché i) svolga, a partire da quel momento, le funzioni dell’Organismo nel caso in cui sia stata disposta la sospensione generale delle azioni esecutive individuali e la nomina appaia necessaria per tutelare gli interessi delle parti, ii) sia stata proposta domanda di concordato in continuità aziendale, iii) sia stata richiesta la nomina da parte del debitore.

L’Organismo è onerato dell’esecuzione del decreto.

Qualunque atto compiuto dal debitore che ecceda l’ordinaria amministrazione e sia effettuato senza alcuna autorizzazione del Giudice è inefficace nei confronti dei creditori anteriori al momento in cui è stata effettuata pubblicità del provvedimento.

Il concordato minore è approvato da tanti creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto.

Il Tribunale, verificata la ammissibilità e la fattibilità del piano, nonché il raggiungimento delle percentuali di cui sopra, in mancanza di contestazioni, omologa il concordato minore con sentenza, disponendo forme adeguate di pubblicità e, se necessario, la trascrizione e dichiara chiusa la procedura.

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La composizione negoziata della crisi

La composizione negoziata della crisi d’impresa è un istituto disciplinato dal Codice della Crisi di Impresa e dellInsolvenza. Si tratta di uno strumento di sostegno alle imprese, di facile accessibilità, il cui fine è quello di sostenere l’imprenditore e l’attività da questi svolta qualora essa versi in uno stato di fisiologico stallo, consentendo di non rimanere passivi e subire un potenziale declino societario ma, al contrario, di attivarsi per risanare limpresa e agire per la continuità aziendale, riportando la società ad un livello di sana competitività in tempi rapidi.

Il rimedio è volontario ed il ricorso ad esso è rimesso alla libera valutazione dell’imprenditore.

Scopo del procedimento di composizione negoziata è quello di intraprendere un percorso di negoziazione con i creditori sociali che possa terminare, auspicabilmente, con la sottoscrizione d’un accordo sostenibile che scongiuri l’apertura di procedure concorsuali e ristrutturi il debito societario ripristinando così la stabilità economico-finanziaria.

L’imprenditore è assistito, nell’ambito della procedura, da un professionista (c.d. esperto), che lo supporta nelle scelte strategiche maggiormente delicate. Le scelte aziendali ordinarie e straordinarie, ove non strategicamente rilevanti, però, sono sempre intraprese dall’imprenditore autonomamente.

Al procedimento di composizione negoziata possono ricorrere tutte le imprese iscritte nel Registro Imprese, comprese le ditte individuali e le società agricole, che versino in una situazione di concreto ed obiettivo, ancorché temporaneo, squilibrio patrimoniale o dissesto economico-finanziario che, potenzialmente, potrebbe portare ad uno stato di crisi o all’insolvenza.

Il procedimento si può avviare con il deposito d’una istanza presso la CCIAA competente, sia nella fase antecedente alla vera e propria crisi, sia durante la crisi, sia quando la società è già in stato di insolvenza: presupposto imprescindibile, però, è che sia concretamente attuabile e perseguibile l’obiettivo del risanamento societario. Diversamente, il deposito dell’istanza è precluso sin dall’inizio.

I soggetti coinvolti nella procedura sono tre: l’imprenditore, che dà impulso al procedimento di composizione depositando l’istanza, l’esperto, che è individuato all’interno d’un elenco presente presso la CCIAA di ogni capoluogo di regione, ed i creditori sociali.

In particolare, l’esperto è un soggetto terzo ed imparziale, di comprovata esperienza, equidistante dalle parti coinvolte, a cui è attribuita anche una funzione di “garanzia” del corretto comportamento dell’impresa (debitrice) di fronte ai creditori sociali. È il soggetto che stimola gli accordi, facilita le trattative e dirige le negoziazioni tra l’impresa, i creditori e gli altri eventuali soggetti coinvolti (intera compagine sociale, azionisti, titolari di quote etc.).

Con riguardo alla procedura, come detto, la stessa prende le mosse con il deposito da parte dell’imprenditore (legale rappresentante) dell’istanza di nomina dell’esperto presso la CCIAA di riferimento.

A tal fine, è necessario avvalersi dell’apposita piattaforma sulla quale, peraltro, sono messe a disposizione anche le linee guida e le migliori pratiche da seguire per la predisposizione del piano di ristrutturazione del debito, corredate da un test pratico, non obbligatorio ma vivamente consigliato, funzionale ad una preliminare verifica di astratta perseguibilità del piano di risanamento societario.

Sulla piattaforma, infine, è presente anche un protocollo contenente le linee guida da adottarsi in sede di trattative finalizzate alla composizione.

All’istanza vanno allegate la documentazione obbligatoria richiesta ed una descrizione minuziosa dell’impresa e dell’attività da essa esercitata, nonché una panoramica riepilogativa delle difficoltà in cui l’impresa versa e delle scelte strategiche che si intendono attuare al fine del risanamento societario.

Depositata l’istanza, una commissione formata da tre membri nomina l’esperto.

L’esperto, ultimata la procedura, deposita la relazione finale con cui elenca analiticamente l’attività svolta e le possibili soluzioni emerse all’esito delle trattative con i creditori che potrebbero sopperire agli squilibri economico-finanziari.

Ove le risultanze della relazione siano positive, l’imprenditore è ammesso a concludere contratti con i creditori.

Ove le risultanze della relazione, invece, siano negative, la procedura viene archiviata e l’imprenditore è legittimato solo ad attivare le ulteriori procedure giudiziali previste in caso di crisi dell’impresa.

Al momento di pubblicazione dell’istanza di nomina dell’esperto nel Registro Imprese, l’imprenditore ha facoltà di richiedere misure protettive del patrimonio aziendale.

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Il prestito tra privati legati da rapporto di parentela

TRIBUNALE DI VARESE, SENT. N. 355/2023 e SENT. 453/2023

Il prestito tra privati, anche legati da rapporto di parentela, è istituto giuridico riconducibile allo schema normativo del contratto di mutuo (artt. 1813 ss c.c.).

La consegna del denaro determina il perfezionamento dell’accordo, con la conseguenza che il mutuatario diviene proprietario del denaro – o altro bene – consegnato (art. 1814 c.c.), assumendo contestualmente l’obbligo di restituirlo al mutuante entro la scadenza pattuita (artt. 1816 e 1817 c.c.).

Il mutuo si presume oneroso in quanto il mutuatario, a titolo di corrispettivo, deve corrispondere gl’interessi al mutuante (art. 1815 c.c.): tali interessi, salvo diversa pattuizione, sono dovuti al tasso legale e non possono superare i tassi soglia di riferimento periodicamente aggiornati con decreto ministeriale.

Nulla vieta, però, che il mutuo sia concluso a titolo gratuito, cioè non siano dovuti interessi da parte di chi ha ricevuto il denaro, permanendo in tal caso in capo a costui solo un obbligo di restituzione.

Per la conclusione d’un contratto di prestito tra privati non è necessario alcun requisito di forma, essendo sufficiente anche il solo accordo verbale delle parti.

Sotto il profilo processuale, assume particolare rilievo l’ipotesi di mancata restituzione del danaro consegnato in forza di mutuo verbalmente stipulato tra parenti: in detti casi, il creditore-attore ha l’onere di provare l’avvenuta consegna ed il conseguente diritto ad ottenere la restituzione. Tale onere non viene meno neanche nel caso in cui la controparte inadempiente, pur ammettendo di aver ricevuto delle somme, dovesse eccepire che dette somme siano state consegnate ad altro titolo, diverso dal mutuo, e, quindi, di non essere gravata da alcun tipo di obbligo di restituzione.

L’obbligo di restituzione, infatti, segna il discrimine tra il mutuo e figure affini caratterizzate dall’assenza di doveri restitutori quali atti di liberalità (c.d. donazioni) o prestiti eseguiti in esecuzione di doveri morali o sociali, molto frequenti in ambito familiare (c.d. obbligazioni naturali).

Per evitare, dunque, che lo scambio di denaro risulti avvenuto a titolo donativo o in ossequio di un’obbligazione naturale – con conseguente rigetto della domanda restitutoria – spetta al creditore mutuante dimostrare, oltre all’avvenuta consegna della somma di cui già si è detto, anche che il rapporto contrattuale è da ricondursi al mutuo e non già ad altre figure contrattuali affini.

Sul punto, unarecente pronuncia del Tribunale di Varese (sentenza n. 355/2023) ha affermato, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità, che chi chiede la restituzione di somme è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non basta dimostrare l’avvenuta consegna del danaro, ma anche che tale consegna è stata effettuata per un titolo -il mutuo appunto- che implichi l’obbligo di restituzione, così da soddisfare l’onere della prova.

In un procedimento civile, terminato con affine decisione (sentenza n. 453/2023), il Tribunale Varesino ha ritenuto provata l’esistenza del mutuo orale tra parenti a fronte della produzione in giudizio delle distinte di bonifico recanti causale “prestito” (trattandosi di strumenti di pagamento tracciabili), nonché della dichiarazione d’un teste che ha confermato l’impegno assunto dai convenuti di restituire il prestito agli attori entro una determinata scadenza poi non rispettata.