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Codice della Strada: pluralità di violazioni

CASS. CIV., SEZ. II, ORD., 17 LUGLIO 2024, N. 19680 –

Il Codice della strada definisce “Zona a traffico limitato” (Ztl) un’area in cui l’accesso e la circolazione veicolare sono limitati.

La limitazione può far riferimento a:

  1. fasce orarie prestabilite;
  2. determinate categorie di utenti della strada;
  3. particolari veicoli.

La vicenda che ci occupa origina da un’opposizione presentata, con separati ricorsi, da un’automobilista avverso 39 verbali di violazione dell’art. 7, commi 9 e 14, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, nonché avverso ulteriori 19 verbali di violazione delle medesime norme.

I verbali venivano notificati all’opponente dalla Polizia Municipale per aver circolato nella zona a traffico limitato in difetto di autorizzazione.

L’automobilista asseriva di essere incorsa in errore incolpevole poiché, al momento della circolazione, aveva la convinzione di essere ancora titolare del diritto di circolare nella zona a traffico limitato del Comune di Terni. Pertanto, l’opponente ricorreva al Giudice di Pace di Terni per ottenere l’annullamento dei predetti verbali.

In primo e in secondo grado, i giudici, in accoglimento dei ricorsi, annullavano tutti i verbali, fatta eccezione per il primo.

Per l’effetto, il Comune di Terni ricorreva in Cassazione.

Il Comune asseriva che i giudici di primo e secondo grado, pur avendo accertato la sussistenza di una pluralità di condotte (poste in essere dall’automobilista), riconducevano queste ultime alla prima infrazione senza, però, delineare il ragionamento logico in virtù del quale le successive violazioni dovevano essere ricondotte alla prima.

Per la difesa del Comune ricorrente, la fattispecie trova la sua regolamentazione nell’art. 198 C.d.S..

Il primo comma del citato articolo stabilisce: “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie, o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo.”

Tale disposizione estende al settore delle sanzioni amministrative il sistema del cumulo giuridico, tipizzato in sede penale, con la sola limitazione prevista dal secondo comma del medesimo articolo, il quale così dispone: ‘‘In deroga a quanto disposto nel comma 1, nell’ambito delle aree pedonali urbane e nelle zone a traffico limitato, il trasgressore ai divieti di accesso e agli altri singoli obblighi e divieti o limitazioni soggiace alle sanzioni previste per ogni singola violazione’’.

La Corte rigettava il ricorso del Comune, chiarendo che nel caso di specie, a dispetto di quanto sostenuto dall’ente, le trasgressioni compiute dall’automobilista non integravano un’ipotesi di concorso formale poiché questo istituto richiede, ai fini della configurazione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 81 c.p., l’unicità dell’azione (od omissione) produttiva della pluralità di violazioni.

Viceversa, nel caso di specie, trova applicazione l’art. 8 bis (L. n. 689/81) rubricato “Reiterazione delle violazioni” il quale così recita: “Salvo quanto previsto da speciali disposizioni di legge, si ha reiterazione quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un’altra violazione della stessa indole. Si ha reiterazione anche quando più violazioni della stessa indole commesse nel quinquennio sono accertate con unico provvedimento esecutivo.

In sostanza, le violazioni, seppur poste in essere in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono, semmai, essere considerate come un’unica infrazione in quanto reiterazioni del medesimo illecito amministrativo (c.d. reiterazione specifica).

Pertanto, la Suprema Corte – nell’ordinanza n. 19680 del 17 luglio 2024 – ribadiva quanto già stabilito nei primi due gradi di giudizio: le condotte, poste in essere dall’automobilista costituiscono un’unica infrazione, la quale è idonea a comportare la caducazione delle violazioni successive.

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Locazione e canone in nero

Ai sensi dell’art. 1571 c.c., la locazione è “il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile, per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo”.

Detto contratto è disciplinato, altresì, da leggi speciali: in particolare, la L. 431/1998 disciplina la locazione di immobili ad uso abitativo e la L. 392/1978 (abrogata in parte dalla L. 431/1998) disciplina le locazioni di immobili ad uso diverso dall’abitazione.

Il contratto si perfeziona con il semplice consenso legittimamente manifestato e produce effetti obbligatori tra le parti.

Sebbene il codice civile non prescriva una particolare forma per la conclusione d’un contratto di locazione (eccetto che per i contratti ultranovennali per cui è prevista la forma scritta a pena di nullità), le L.L. 431/98 e 392/78 prevedono, tuttavia, che ai fini della conclusione di un valido contratto la forma scritta, onde anche fornire una adeguata pubblicità all’atto. In difetto, il contratto è da ritenersi nullo e tale invalidità è rilevabile d’ufficio dal Giudice.

Scopo delle previsioni normative è quello di far emergere l’enorme numero di contratti c.d. in nero e contrastare l’evasione fiscale (cfr. anche Cass. Civ. SS.UU. n°18214/2015): le locazioni, infatti, sono sottoposte sia imposte dirette sia imposte indirette.

Il contrasto all’evasione fiscale è raggiunto anche con l’imposizione dell’obbligo, per il conduttore e per il locatore, di registrare qualunque contratto di locazione di beni immobili la cui durata ecceda i trenta giorni: la registrazione deve avvenire preso gli Uffici Territoriali dell’Agenzia delle Entrate entro il termine di trenta giorni successivi alla decorrenza dello stesso. In caso di mancata registrazione del contratto entro i termini di legge il contratto sarà affetto, ancora una volta, da nullità.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. SS.UU. n°23601/2017) sono più volte intervenute in materia, in primis chiarendo che l’omessa registrazione totale del contratto di locazione immobiliare, tale da rendere l’intero rapporto locatizio sconosciuto al fisco, comporta, come detto, la nullità dell’intero contratto per inadempimento dell’obbligo tributario, ancorché tale nullità sia sanabile retroattivamente per effetto dell’adempimento tardivo della formalità omessa.

In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato che nei casi in cui il canone effettivamente convenuto tra le parti sia di un importo superiore a quello riportato sul contratto d’affitto registrato – in tal caso si ha riguardo al c.d. “patto occulto di maggiorazione del canone” – ad essere affetto da nullità è solo il patto, e non già l’intero contratto, e non vi è possibilità di rimedi in sanatoria.

Nei casi di c.d. patto occulto di maggiorazione del canone è ragionevole chiedersi se e come recuperare l’eccedenza di canone versata in nero (extra rispetto al canone in chiaro convenuto).

Sullo specifico punto, l’art. 79 della L. 392/78 sancisce che il conduttore, entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, da intendersi quale termine di decadenza, può chiedere la ripetizione delle somme indebitamente corrisposte in misura superiore al canone concordato.

La richiesta di restituzione delle somme, peraltro, può essere avanzata anche in tutti quei casi in cui il contratto non sia mai stato registrato: qualora sia stato il locatore ad imporre al conduttore di non procedere alla registrazione, esercitando sullo stesso una sorta di violenza morale al fine di indurlo ad omettere tale adempimento, il conduttore avrà diritto alla restituzione dell’eccedenza pagata; qualora, invece, il contratto in nero sia frutto dell’(illegittimo) accordo tra le due parti, il locatore, da un lato, potrebbe agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile occupato senza titolo, mentre il conduttore potrebbe essere ristorato parzialmente delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente a quella del canone concordato.

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Il prestito tra privati legati da rapporto di parentela

TRIBUNALE DI VARESE, SENT. N. 355/2023 e SENT. 453/2023

Il prestito tra privati, anche legati da rapporto di parentela, è istituto giuridico riconducibile allo schema normativo del contratto di mutuo (artt. 1813 ss c.c.).

La consegna del denaro determina il perfezionamento dell’accordo, con la conseguenza che il mutuatario diviene proprietario del denaro – o altro bene – consegnato (art. 1814 c.c.), assumendo contestualmente l’obbligo di restituirlo al mutuante entro la scadenza pattuita (artt. 1816 e 1817 c.c.).

Il mutuo si presume oneroso in quanto il mutuatario, a titolo di corrispettivo, deve corrispondere gl’interessi al mutuante (art. 1815 c.c.): tali interessi, salvo diversa pattuizione, sono dovuti al tasso legale e non possono superare i tassi soglia di riferimento periodicamente aggiornati con decreto ministeriale.

Nulla vieta, però, che il mutuo sia concluso a titolo gratuito, cioè non siano dovuti interessi da parte di chi ha ricevuto il denaro, permanendo in tal caso in capo a costui solo un obbligo di restituzione.

Per la conclusione d’un contratto di prestito tra privati non è necessario alcun requisito di forma, essendo sufficiente anche il solo accordo verbale delle parti.

Sotto il profilo processuale, assume particolare rilievo l’ipotesi di mancata restituzione del danaro consegnato in forza di mutuo verbalmente stipulato tra parenti: in detti casi, il creditore-attore ha l’onere di provare l’avvenuta consegna ed il conseguente diritto ad ottenere la restituzione. Tale onere non viene meno neanche nel caso in cui la controparte inadempiente, pur ammettendo di aver ricevuto delle somme, dovesse eccepire che dette somme siano state consegnate ad altro titolo, diverso dal mutuo, e, quindi, di non essere gravata da alcun tipo di obbligo di restituzione.

L’obbligo di restituzione, infatti, segna il discrimine tra il mutuo e figure affini caratterizzate dall’assenza di doveri restitutori quali atti di liberalità (c.d. donazioni) o prestiti eseguiti in esecuzione di doveri morali o sociali, molto frequenti in ambito familiare (c.d. obbligazioni naturali).

Per evitare, dunque, che lo scambio di denaro risulti avvenuto a titolo donativo o in ossequio di un’obbligazione naturale – con conseguente rigetto della domanda restitutoria – spetta al creditore mutuante dimostrare, oltre all’avvenuta consegna della somma di cui già si è detto, anche che il rapporto contrattuale è da ricondursi al mutuo e non già ad altre figure contrattuali affini.

Sul punto, unarecente pronuncia del Tribunale di Varese (sentenza n. 355/2023) ha affermato, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità, che chi chiede la restituzione di somme è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non basta dimostrare l’avvenuta consegna del danaro, ma anche che tale consegna è stata effettuata per un titolo -il mutuo appunto- che implichi l’obbligo di restituzione, così da soddisfare l’onere della prova.

In un procedimento civile, terminato con affine decisione (sentenza n. 453/2023), il Tribunale Varesino ha ritenuto provata l’esistenza del mutuo orale tra parenti a fronte della produzione in giudizio delle distinte di bonifico recanti causale “prestito” (trattandosi di strumenti di pagamento tracciabili), nonché della dichiarazione d’un teste che ha confermato l’impegno assunto dai convenuti di restituire il prestito agli attori entro una determinata scadenza poi non rispettata. 

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Pacchetti turistici e danno da vacanze rovinate

Il codice del turismo, così come novellato dal D.Lgs. n. 62/2018, disciplina i) i pacchetti turistici – intendendosi per talii pacchetti in cui vi è la combinazione di almeno due tipi di servizi turistici (trasporto di passeggeri, noleggio auto, etc) – offerti in vendita o venduti da professionisti ai viaggiatori e ii) i servizi turistici collegati la cui offerta o vendita ai viaggiatori è agevolata da professionisti, esclusi pacchetti e servizi turistici collegati la cui durata sia inferiore alle 24 ore e, ancora, iii) i pacchetti e servizi turistici collegati la cui offerta o vendita ai viaggiatori sia agevolata da imprese turistiche senza scopo di lucro, laddove agiscono occasionalmente.

In tali ipotesi, l’organizzatore è responsabile dell’esecuzione dei servizi previsti dal contratto di pacchetto turistico, indipendentemente dal fatto che tali servizi debbano essere prestati dall’organizzatore stesso, dai suoi ausiliari o preposti quando agiscono nell’esercizio delle loro funzioni, dai terzi della cui opera si avvale o, infine, da altri fornitori di servizi turistici.

Eventuali difetti di conformità rilevati durante l’esecuzione di un servizio turistico devono essere tempestivamente comunicati dal viaggiatore all’organizzatore: l’organizzatore è tenuto a porre rimedio al difetto di conformità entro un ragionevole periodo, salvo il diritto del viaggiatore di ovviare personalmente al difetto e chiedere il rimborso delle spese.

Se un difetto di conformità é tale da integrare gli estremi di un inadempimento di non scarsa importanza (ex art. 1455 c.c.) e l’organizzatore non vi ha posto rimedio, il viaggiatore può risolvere di diritto il contratto di pacchetto turistico o chiedere una riduzione del prezzo, salvo comunque l’eventuale risarcimento dei danni subiti.

Nel caso in cui l’inadempimento delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto non sia di scarsa importanza, il viaggiatore può chiedere all’organizzatore o al venditore, oltre alla risoluzione del contratto, anche il risarcimento del danno da vacanza rovinata, correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso e all’irripetibilità dell’occasione perduta.

Tale danno, infatti, si sostanzia nel pregiudizio arrecato al turista per non aver potuto godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di piacere, svago o riposo senza soffrire il disagio psicofisico che accompagna la mancata realizzazione in tutto o in parte del programma previsto.

Il c.d. danno da vacanza rovinata costituisce una voce di danno non patrimoniale, che trova fondamento nell’art. 2059 c.c., che deve essere distinta dal vero e proprio danno patrimoniale consistente nella perdita economica subita.

Ai sensi dell’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale da vacanza rovinata costituisce uno dei casi previsti dalla legge di pregiudizio risarcibile: spetta al giudice procedere alla valutazione della domanda risarcitoria alla stregua dei generali principi di correttezza e buona fede e alla considerazione dell’importanza del danno, fondata sul bilanciamento, per un verso, del principio di tolleranza delle lesioni minime e per altro verso, della condizione concreta delle parti (Cass. Civ. 17724/2018).

Con riguardo alla prescrizione, il diritto al risarcimento da vacanza rovinata si prescrive in tre anni decorrenti dalla data del rientro del viaggiatore nel luogo di partenza (Cass. Civ. n. 5271/2023), o nel più lungo periodo previsto per il risarcimento del danno alla persona dalle disposizioni che regolano i servizi compresi nel pacchetto.

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Invio di messaggi sessualmente espliciti e violenza sessuale

CASSAZIONE PENALE SEZ. III, 02/07/2020, N. 25266

In un periodo in cui il tema della libertà e delle violazioni della sfera sessuale è frequentemente oggetto di dibattiti e di controversie ideologiche, la Cassazione è stata chiamata a dirimere una vicenda avente ad oggetto la trasmissione di messaggi sessualmente espliciti a una minore, via WhatsApp, con minaccia di pubblicare la chat.

Il provvedimento in commento è stato pronunciato ad esito di ricorso del difensore dell’indagato contro il provvedimento di custodia cautelare del Tribunale del Riesame. Quella della Cassazione, pertanto, non è una sentenza definitiva che accerta la colpevolezza dell’accusato. È tuttavia interessante, anche per la ricostruzione dei precedenti giudiziari che richiama in motivazione, perché fornisce un importante quadro interpretativo utile anche per fattispecie analoghe.

Ad avviso del difensore dell’indagato, non era possibile ravvisare il reato di “violenza sessuale” (ex art. 609 bis c.p.). Del resto, la “condotta illecita si era limitata all’invio di una propria foto nuda, invitando la ragazza ad un commento, nonchè alla ricezione di una foto della ragazza senza reggiseno”, seppur sotto la minaccia di pubblicare la chat su internet. Non vi era, però, stato alcun “atto sessuale, seppur allo stadio del tentativo, non essendo avvenuto alcun incontro tra lui e la presunta persona offesa”, così come non vi era stata alcuna induzione a pratiche di autoerotismo o altre pratiche sessuali via chat, né alcuna proposta di incontro o di sesso via chat.

La Corte di Cassazione ha invece ritenuto “solida e ben motivata” la decisione del Tribunale del Riesame che affermava che “la violenza sessuale risultava pienamente integrata pur in assenza di contatto fisico con la vittima, quando gli atti sessuali coinvolgessero la corporeità sessuale della persona offesa e fossero finalizzati e idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale nella prospettiva di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale”.

Ha infatti ricordato che, in una situazione assimilabile, era stato qualificato come tentativo di violenza sessuale “il fatto di chi, minacciando – e poi attuando la minaccia – di inviare ai parenti di una donna foto compromettenti scattate in occasione di incontri amorosi con lei precedentemente avuti, tenti di costringerla ad ulteriori rapporti sessuali, non rilevando assenza di qualsivoglia approccio fisico” (Cass., Sez. 3, n. 8453 del 14/06/1994).

In un’altra occasione era stato considerato reato di “atti sessuali con minorenne” la condotta di colui che “richieda nel corso di una conversazione telefonica, di compiere atti sessuali, di filmarli e di inviarli immediatamente all’interlocutore, non distinguendosi tale fattispecie da quella del minore che compia atti sessuali durante una video-chiamata o una video-conversazione” (Cass., Sez. 3, n. 17509 del 30/10/2018).

L’unico aspetto sul quale i Giudici di legittimità non hanno preso una chiara posizione è se il fatto possa essere ritenuto un mero tentativo.

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Il danno da perdita di vita non è risarcibile

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 01/07/2020, N.13261

La Corte di Cassazione è tornata a ribadire un principio già espresso dalle Sezioni Unite nel 2015, in tema di danno da perdita di vita.

La triste vicenda processuale vedeva Tizio agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno sofferto a seguito del decesso del figlio a causa di un sinistro stradale.

Le richieste di Tizio erano accolte dal Tribunale adito. Veniva invece rigettata, sia in primo grado, sia in sede di appello, la pretesa relativa al danno che il figlio avrebbe subito (e che il padre lamentava quale suo erede) “per aver perso la vita”.

Il rigetto è stato confermato anche in grado di legittimità, con la sentenza in commento. La decisione, con motivazioni sintetiche ma rigorose, chiarisce infatti che, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, “non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita”, poichè non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare”.

È bene notare che la pronuncia in oggetto segue il solco tracciato dalle sezioni unite nel 2015 (sent. n. 15350) che, con una pronuncia ben più articolata, a loro volta avvaloravano un principio già espresso nel lontano 1925 (Cass. sez. un. 1925, n. 3475).

In altre parole, ricordando il filosofo Epicuro, che viene espressamente menzionato dalla corte, “il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi”.

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Assenza di certificato di abitabilità: legittimo il rifiuto ad acquistare

CASS. CIV., SEZ. II, ORD., 5 AGOSTO 2022, N. 24317

In un recente intervento, la Cassazione si è espressa sui diritti del promittente acquirente di un immobile nel caso in cui il venditore non sia in grado di consegnare il certificato di abitabilità (o agibilità).

La mancata consegna o il mancato rilascio del certificato di abitabilità (o agibilità) di per sé non invalida il contratto preliminare, tuttavia “integra un inadempimento del venditore”, tale per cui il promittente acquirente può rifiutarsi di concludere l’atto di acquisto o pretendere un risarcimento per la ridotta commerciabilità del bene. Tutto ciò a meno che quest’ultimo non abbia espressamente rinunciato al requisito dell’abitabilità o comunque abbia esonerato il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza.

In particolare il rifiuto a “stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo del certificato di abitabilità o di agibilità, pur se il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune nei cui confronti, peraltro, è obbligato ad attivarsi il promittente venditore – è giustificato, poiché il predetto certificato è essenziale, avendo l’acquirente interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale nonché a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene”.

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Diffamazione: il danno all’immagine deve essere provato?

Cassazione civile sez. III, 18/02/2020, n. 4005

La diffamazione a mezzo stampa è un tema che viene frequentemente affrontato nelle aule giudiziarie, ove devono essere bilanciati il diritto alla cronaca o alla critica da una parte e il diritto all’onore e alla reputazione dall’altra.

L’aspetto sul quale ci vogliamo concentrate è quello del risarcimento del danno all’immagine, alla luce della recente pronuncia con cui la Cassazione ha ricordato i criteri applicabili in materia.

La Corte di legittimità, ribadendo un orientamento ormai consolidato, afferma che il danno all’immagine non discende automaticamente dal fatto illecito (non è “in re ipsa”), ma deve essere provato da chi ne invoca il risarcimento. La dimostrazione del danno può essere offerta anche mediante presunzioni, “assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. 4005/2020).

Nello specifico, la Corte era chiamata a giudicare il caso di un professionista ingiustamente indicato da un quotidiano locale, quale progettista di una lottizzazione sotto sequestro per via di gravi illeciti, chiarendo che è da considerarsi corretta la decisione che “dimostra di avere preso in considerazione la posizione personale e sociale del soggetto leso, in riferimento sia al profilo oggettivo della violazione commesso, in relazione alla gravità dell’accusa infondatamente mossa, che a quello soggettivo, relativo alla personalità del soggetto offeso e all’incidenza che la notizia falsa aveva presumibilmente avuto in riferimento al contesto sociale e professionale cui si riferiva, collegato a un territorio a forte vocazione turistica, quale è la costa ionica, ove i temi della deturpazione del territorio e della distruzione delle bellezze naturali urtano la sensibilità dell’opinione pubblica e, di riflesso, incidono sulla reputazione di chi in tale campo esercita la professione. Si tratta, quindi, di un giudizio in cui si è tenuto conto di tutte le circostanze allegate per valutare il danno morale derivato dall’illecito, con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data la impalpabilità del danno reputazionale, desumibile non solo dal curriculum professionale della vittima della diffamazione, ma da altri rilevanti elementi, correlati al contesto territoriale e sociale il cui il professionista opera”.

Inoltre, le difficoltà degli operatori riguardano la liquidazione del danno all’immagine che, considerata la sua natura non patrimoniale, non è quantificabile economicamente in via immediata.

La valutazione dell’autorità giudiziaria, chiamata a dirimere il caso concreto, deve essere“necessariamente equitativa” (Cass. civile n.13153/2017). A tal fine, uno strumento di indubbia utilità è fornito dalle note Tabelle Milanesi, aggiornate al marzo 2018, che tra l’altro contengono i riferimenti orientativi per la quantificazione del danno patito a causa della diffamazione a mezzo stampa.

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Incidente a causa di attraversamento di animale: la responsabilità del gestore delle autostrade

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI CIVILE, 24/03/2022, n. 9610 –

Purtroppo non sono infrequenti i sinistri sui tratti autostradali causati dall’improvviso attraversamento di animali della carreggiata. Quando è possibile pretendere il risarcimento da parte della società che gestisce l’autostrada?

Ricordiamo che la fonte della responsabilità deriva dall’art. 2051 c.c., che pone a carico del custode, cioè di colui che ha il potere di vigilanza e controllo su una cosa, il risarcimento dei danni che da quella cosa derivino. Il custode può liberarsi da questo stringente onere solo provando che il danno sia derivato dal “caso fortuito”.

Recentemente la Cassazione ha affermato che nell’ipotesi di sinistro stradale determinato dalla repentina comparsa di un animale sulla carreggiata di un’autostrada, il custode per liberarsi dalla responsabilità (e quindi dagli obblighi risarcitori) “deve dare la prova positiva che la presenza dell’animale è stata determinata da un fatto imprevedibile ed inevitabile”.

Con particolare riferimento alla presenza di animali sulla sede stradale, la Corte ha indicato quali esempi di imprevedibilitàla caduta da mezzo in transito o l’abbandono in area di sosta o l’apertura improvvisa di un varco della recinzione”, affermando al contrario che nel caso di specie “l’ingresso di animali dal vicino svincolo autostradale (anch’esso facente parte del bene in custodia) costituisce elemento di intrinseca pericolosità ed al contempo esclude che l’ingresso di animali poi presuntivamente verificatosi possa considerarsi evento imprevedibile ed inevitabile idoneo ad integrare caso fortuito” (Cass. civile sez. VI, 24/03/2022, n. 9610).

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Anche i famigliari non conviventi hanno diritto al risarcimento dei danni per morte del congiunto

CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 8218 DEL 24.03.2022 –

La morte di una persona, se causata da condotta illecita di altro soggetto (per sinistro stradale, imperizia medica, mancato rispetto delle norme antinfortunistiche nei rapporti di lavoro, danno da cose in custodia e comunque per qualsiasi evento riconducibile a responsabilità di terzi) causa un danno ai familiari che può essere sia materiale (si pensi alla perdita di un genitore che sostiene economicamente la famiglia) che non patrimoniale.

Entrambi i danni debbono essere risarciti a coloro che hanno un vincolo affettivo ampio e profondo con la vittima.

A prescindere dalla problematica dell’entità del risarcimento, non oggetto del presente breve scritto ma che comunque dipende anch’esso dal rapporto affettivo con la vittima, la giurisprudenza si è trovata frequentemente a prendere posizione su quali siano i soggetti che hanno diritto a tale risarcimento, al di fuori dell’ovvia stretta cerchia dei figli, dei genitori, del coniuge comunque degli appartenenti al “nucleo familiare ristretto”.

L’ampiezza e profondità del vincolo affettiva, senza necessità di darne dimostrazione, si danno infatti per certi tra persone unite da vincoli parentali e da convivenza.

Spesso la giurisprudenza ha utilizzato il solo criterio della convivenza, escludendo perciò dal diritto al risarcimento tutti i familiari che non fossero conviventi con la vittima.

Con la decisione 8218 / 2021 pubblicata lo scorso 24 marzo, La Cassazione ha statuito che si deve escludere che la convivenza sia requisito indispensabile per riconoscere il diritto al risarcimento del danno da perdita parentale. Mentre va indagata l’effettiva ampiezza e profondità del vincolo parentale che ben potrebbe esistere anche in assenza di convivenza. Va sempre accordata, invece, la possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.

Nel caso di specie i soggetti che richiedevano il risarcimento affermavano di avere subito danno non patrimoniale dalla morte della zia – vittima di un incidente stradale – con la quale, seppure non con essi conviventi avevano rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà.