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Offese in chat: diffamazione o ingiuria?

Cassazione penale sez. V, sentenze 25/02/2020, n. 10905 e 20/02/2019, n. 7904

La diffusione dell’utilizzo di software di messaggistica istantanea o di Voip (ossia i programmi che permettono di effettuare telefonate o videochiamate tramite connessione internet), ha portato a un incremento di pronunce della giustizia sul un tema delle offese recate con tali mezzi.

L’ambito di questo scritto è circoscritto ai casi in cui il destinatario dell’espressione offensiva partecipa alla chat o alla videochiamata nella quale viene proferita. Ci si è infatti chiesti, se in tal caso le condotte sono da ricondurre alla fattispecie penale della diffamazione oppure dell’ingiuria. L’elemento che permettere di differenziare le tue figure delittuose è la presenza o meno dell’offeso, e quindi la possibilità che lo stesso abbia di difendersi in tempo reale. È una differenza di non poco conto, considerato che il reato di ingiuria è stato depenalizzato nel 2016 (ciò peraltro non esclude che si possa pretendere in sede civile un risarcimento del danno per la lesione alla reputazione).

In questo ambito, la recente giurisprudenza distingue due diverse ipotesi.

La prima è quella, pressoché quotidiana, dell’utilizzo di messaggi scritti all’interno di chat (o “gruppi”) su Whatsapp (a cui bisogna ritenere equivalenti altri sistemi analoghi, per esempio Facebook).

Ebbene, la Cassazione con la sentenza n. 7904/2019 ha affermato che la presenza, o meglio la partecipazione, alla chat della persona a cui sono rivolte le espressioni offensive non è sufficiente per ricondurre la condotta all’ingiuria. Infatti, “sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet’) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”. Nel caso citato, la Suprema Corte ha quindi pronunciato sentenza di condanna per il reato di diffamazione.

La seconda ipotesi è quella delle cd. conference call, in occasione delle quali è simultaneamente collegato un numero determinato di persone che interloquiscono tra loro.

In tali contesti, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che qualora le espressioni offensive sono pronunciate “dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza, altresì, di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale” è corretto qualificare il fatto come ingiuria che, per quanto aggravata dalla presenza di più persone, è fattispecie depenalizzata (sent. 10905/2020). Dal testo della sentenza citata, sorretta da una motivazione, invero, piuttosto stringata, sembra che sia stato valorizzato anche il dato che alla “chat vocale” partecipava un limitato numero di persone (nella fattispecie era utilizzato il software Google Hangouts – che ammette un massimo di 15 partecipanti) e che si trattasse di una comunicazione orale.

Viene da chiedersi se la Cassazione sarebbe dello stesso avviso nel caso di una videoconferenza con un ampio numero di soggetti coinvolti (ad esempio il software Zoom consente fino a 100 utenti contemporaneamente).

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Sinistro stradale: il danno da fermo tecnico

Nel presente articolo si intende fornire una breve rassegna delle più recenti pronunce di merito in relazione al dibattuto tema del cd. fermo tecnico del veicolo in caso di sinistro stradale.

Innanzitutto, si ricorda che è ormai pacifico in giurisprudenza che l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni (c.d. fermo tecnico) è un danno che non può considerarsi sussistente in re ipsa, per il solo fatto che il mezzo sia stato inutilizzato dal proprietario per un certo lasso di tempo, ma – come ogni danno – deve essere provato (Cass. Civ. n. 20620/2015).

Partendo da questo assunto, il Tribunale di Milano ha precisato che il danno da fermo tecnico potrebbe consistere “ad esempio nella spesa per un mezzo sostitutivo ovvero nella rinuncia forzata a proventi ricavabili dall’uso del mezzo”. Nel caso di specie, era negato il risarcimento del danno in quanto la parte aveva solo “ipotizzato la necessità di un’auto sostitutiva da noleggiare ad Alessandria ma nessuna spesa effettiva ha documentato a riguardo” (Tribunale Milano sez. X, 22/01/2021, n. 429).

È stato anche affermato che “il giudice può procedere a liquidare equitativamente il danno solo quanto questo è destinato a rimanere incerto nella sua determinazione (Cass. n. 11698/2018) e non anche quando l’attore, pur potendolo fare, non ha provato l’an e il quantum della propria pretesa”. Nel giudizio, le domande attoree erano respinte in quanto non era stata prodotta in giudizio la fattura, o comunque la documentazione, attestante la spesa sostenuta per dotarsi di un mezzo sostitutivo (Tribunale Pisa sez. I, 06/07/2021, n. 912).

Altro spunto interessante della stessa pronuncia è il seguente: “ogni analisi circa l’imprescindibile necessità di dotatasi di un mezzo sostitutivo deve essere preclusa, non essendo affatto necessaria. Tant’è’ vero che la giurisprudenza esclude la risarcibilità del danno da cd. Fermo tecnico in ipotesi diverse, in ragione del fatto, ad esempio, che il mezzo incidentato inutilizzabile fosse sprovvisto di assicurazione obbligatoria e dunque non poteva circolare”.

La giurisprudenza ha ritenuto che neppure il “deprezzamento del veicolo” possa essere considerato un pregiudizio automatico in caso di fermo tecnico. “In primo luogo, infatti, il deprezzamento è causato dalla necessità della riparazione, non dalla durata di questa. In secondo luogo, il deprezzamento d’un veicolo non è una conseguenza necessaria del fermo tecnico, ma un danno eventuale e da accertare caso per caso. Così, ad esempio, la riparazione d’un veicolo obsoleto e malandato potrebbe addirittura fargli acquistare un valore superiore a quello che aveva prima del sinistro” (Tribunale Ivrea sez. I, 07/09/2021, n. 833).

Da ultimo si osserva che, mentre sembra che non vi siano pronunce ostative in relazione al risarcimento dei costi relativi agli oneri per la tassa di circolazione, recentemente il Tribunale di Milano ha così deliberato: “è considerata erronea l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno pari al premio assicurativo “inutilmente pagato” posto che durante il periodo della riparazione il proprietario potrebbe chiedere all’assicuratore la sospensione dell’efficacia della polizza sicché, ove non si avvalga di questa semplice precauzione, il pagamento del premio non potrebbe costituire un danno risarcibile perché dovuto a negligenza del danneggiato (Tribunale Milano sez. VI, 27/10/2021, n. 8731).

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La comproprietà: utilizzo esclusivo e i suoi effetti

CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE 2, ORDINANZA N. 39036 DEL 09/12/2021

La comproprietà di un bene – e in particolare di un bene immobile che è l’ipotesi certamente più ricorrente – fa sorgere nei non addetti ai lavori non poche domande e perplessità sul diritto al suo utilizzo e alla legittimità di un uso esclusivo da parte di uno solo dei comproprietari.

Il presente scritto è certamente più rivolto a chi si trova ad essere comproprietario di un bene con altri e si chiede quale uso ne possa fare e quale uso sia invece vietato a ogni singolo comproprietario, che non agli operatori del diritto che ben ne conoscono le norme regolatrici, che possono apparire apparentemente contradditorie per gli utenti.

Le ipotesi più ricorrenti di comunione (comproprietà), semplificando non volontaria, e che proprio per questo aspetto possono creare maggiori dubbi e quesiti ai soggetti che vi si trovano coinvolti, sono quelle tra coeredi e quelle negli edifici condominiali, distinte peraltro da una netta e significativa differenza.

La prima non comporta alcun obbligo di rimanere in comunione con la possibilità, in qualsiasi momento e da parte di ciascuno dei comproprietari, di chiedere la divisione con l’effetto, ove possibile, di attribuzione di singole autonome proprietà e, sempre, di scioglierla. Nel caso del condominio, invece, lo scioglimento può avvenire solo in circostanze particolari.

L’uso dei beni comuni è regolato in generale dall’art. 1102 del codice civile, il quale prevede che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Si tratta pertanto di due differenti condizioni di cui la seconda è quella che in questo caso ci interessa.

Ora è evidente quale sia il nodo da sciogliere: qual è il limite tra il lecito servirsi della cosa comune da parte di uno solo dei comproprietari e contemporaneamente la possibilità del pari uso da parte degli altri comproprietari?

Il pari uso non va inteso nel senso di uso identico e contemporaneo il che, essendo logisticamente impossibile, di fatto comporterebbe nei fatti il divieto, per ciascun comproprietario, di fare qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio della cosa comune (Tribunale di Arezzo, 04/10/2021, n. 800).

L’uso paritario deve invece intendersi come diritto di ciascun partecipante alla comunione della facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, che richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (in tema condominiale Tribunale Modena sez. I 06/05/2021 n. 752).

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l’uso esclusivo del bene in comunione, da parte di uno dei comproprietari, non provoca alcun pregiudizio in danno degli altri, quando questi siano rimasti inerti o abbiano acconsentito all’uso esclusivo in modo certo ed inequivoco (tra le tante da ultimo Tribunale Pavia sez. III 05/10/2021 n. 1262; Tribunale La Spezia sez. I 08/06/2021 n. 345; Tribunale Bergamo sez. IV 25/03/2021 n. 504; Tribunale Palermo sez. II 15/03/2021, n.1067).

Invece la conseguenza in caso di uso esclusivo del bene in comunione contro la volontà espressa degli altri comproprietari, è che l’occupante sarà tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso (Cass. Civ., Sez. 2,  n. 7019 del 12/03/2019; Cass. Civ., Sez. 2, n. 2423 del 09/02/2015).

Relativamente agli immobili, i frutti civili si identificano con un canone locativo di mercato (principio confermato dall’ordinanza che ha dato spunto al presente scritto e più volte dichiarato dalla Cassazione tra le ultime Cass. Civ., Sez. 2, ordinanza n. 17876 del 03/07/2019 e Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 5504 del 05/04/2012).

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Guida ebbrezza alcolica avvisi esami del sangue

Guida in stato di ebbrezza: obbligo degli avvisi in caso di prelievo del sangue per la verifica del tasso alcolemico – Cassazione penale sez. IV, 08/11/2019, sent. 10/12/2019, n.49898

L’art. 186, D.Lgs 285/1992 (il cd. Codice della Strada), disciplina gli illeciti amministrativo (co. 2, Lett. a.) e penali (co. 2, Lett. b. e c.) commessi dai conducenti che si mettono alla guida di un veicolo in stato di ebbrezza alcolica.

In considerazione delle concrete modalità con cui tali condotte vengono riscontrate e contestate, uno dei temi che più ha interessato la giurisprudenza è quello legato all’accertamento delle condizioni psico-fisiche del conducente, quando questo avvenga mediante l’analisi di campioni biologici.

Il caso tipico è quello del sinistro stradale, a seguito del quale il conducente viene trasportato o si reca presso la più vicina struttura sanitaria per sottoporsi gli accertamenti clinici più opportuni. In tali occasioni, capita di frequente che gli organi di polizia richiedano allo stesso presidio ospedaliero, che sta prestando le cure del caso, di procedere alla verifica del livello alcolico nel sangue del paziente/conducente, mediante esami strumentali (prelievi ematici).

Quali che siano gli esiti di tali verifiche, non sempre gli accertamenti possono essere utilizzati ai fini processuali. La Cassazione, infatti, anche di recente, ha ribadito che “sussiste l’obbligo di previo avviso al conducente coinvolto in un incidente stradale di farsi assistere da un difensore di fiducia, ai sensi dell’art. 356 c.p.p. e art. 114 disp. att. c.p.p., in relazione al prelievo ematico presso una struttura sanitaria finalizzato all’accertamento del tasso alcolemico, qualora l’esecuzione di tale prelievo non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari, ma sia autonomamente richiesta dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5” (Cassazione penale sez. IV, 08/11/2019, sent. n. 49898/2019).

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Pagamento di assegno a persona diversa dal beneficiario: quando è responsabile la banca

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 14/05/2021, N. 13148 –

La Cassazione è tornata a giudicare i profili di responsabilità della banca negoziatrice (ossia quella che materialmente riceve l’assegno dal prenditore al fine di incassarlo) nel caso in cui paghi un assegno non trasferibile a persona diversa dall’intestatario.

La cornice normativa è quella dell’art. 43, R.D. del 21/12/1933, n. 1736, ai sensi del quale “colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento”.

Con la sentenza in esame è stato ribadito il principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2018 (set. 12477): “la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’articolo 1176, comma 2, del codice civile” e cioè la diligenza che si può pretendere da chi svolge e possiede le specifiche competenze dell’attività bancaria.

A questo riguardo, è stato affermato che “la negligenza del funzionario della banca negoziatrice si evidenzia solo allorquando l’alterazione del titolo posto all’incasso sia riscontrabile “ictu oculi”, attraverso un esame diretto, visivo o tattile dell’assegno da parte del funzionario addetto (Cass. civ. sez. I, 12/05/2021, n. 12573), “in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, nè è tenuto a mostrare le qualità di un esperto grafologo” (Cass. civ. sez. VI, 19/06/2018, n. 16178).

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Il consenso informato del paziente

CORTE CASSAZIONE SEZ. III SENTENZE N. 7385 DEL 16.3.2021, N. 8163 DEL 23.3.2021 E N. 12593 DEL 12.5.2021; N. 18283 DEL 25.5.2021

L’occasione delle problematiche vaccinali del periodo che stiamo vivendo rende di particolare interesse il tema de consenso informato, anche alla luce delle ultime sentenze di legittimità.

Ogni trattamento sanitario o esame diagnostico necessita del consenso del soggetto che vi si sottopone. L’obbligo di acquisire il consenso informato, a carico della struttura e del sanitario, è attuazione di principi costituzionali e di norme di legge che a questi si rifanno. In particolare, l’art. 32, 2° co. della Costituzione sancisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, l’art. 13 della Costituzione garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e l’art. 33 L. n. 833 del 1978 esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p..

L’obbligo di informazione del paziente e di acquisizione del consenso è oggi codificato dalla Legge 219 del 22.12.2017Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

Le disposizioni della norma che interessano l’argomento trattato oggi recepiscono i principi che la giurisprudenza di legittimità ha elaborato nel tempo sull’obbligo del consenso informato, che sono i seguenti:

  • Diritto all’autodeterminazione della persona con la premessa che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 1 c.1).
  • Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi (art. 1 c. 3).
  • Il consenso informato deve essere documentato in forma scritta o videoregistrazione e, in casi di incapacità del paziente di esprimersi con i suddetti mezzi, con idonei mezzi.

È particolarmente significativo il contenuto che deve avere l’informazione che deve essere fornita dal sanitario e dalla struttura al paziente, perché il suo consenso possa essere considerato valido e ciò è quanto disposto dal comma 3 dell’Art. 1 della legge citata. Quanto ai benefici e ai rischi la giurisprudenza ha precisato che l’obbligo informativo deve comprendere tutte le implicazioni del trattamento, siano esse benefiche come di rischio ma anche di esito inalterante, ovvero quando al trattamento, benchè non siano conseguiti esiti negativi, non sia seguito alcun miglioramento con ciò dimostrandosi la sua inutilità.

La conseguenza della mancata informazione così come dell’informazione carente – che tale potrebbe essere sia per il contenuto che per la forma di comunicazione al paziente, non idonea alle sue capacità di comprensione – può causare, in caso di conseguenze al trattamento invalidanti, due figure di danno risarcibile.

Un danno alla salute sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente se correttamente informato avrebbe evitato di sottoporsi al trattamento e di subirne le conseguenze.

Un danno da lesione dell’autodeterminazione in sè stesso che sussiste quando la mancanza informativa abbia causato al paziente un pregiudizio diverso dal danno alla salute.

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È punibile l’abbandono di minori anche se temporaneo

CASSAZIONE PENALE SEZ. V, 10/06/2021, N.27926 –

Riportiamo la recente sentenza n. 27926 del 10.06.2021 della Sezione V Penale della Corte di Cassazione che fornisce un quadro completo e aggiornato degli orientamenti giurisprudenziali in tema di abbandono di minori e persone incapaci, fattispecie di reato punita dall’art. 591 del codice penale.

Ad avviso della Corte, integra il delitto di abbandono “qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo”.

Particolare rilievo assume il rapporto di custodia tra l’agente e il minore o l’incapace, che può sorgere sia da obblighi giuridici formali (es. il genitore nei confronti del figlio minorenne), sia da una spontanea assunzione dell’obbligo da parte dell’agente (es. sorveglianza di un bambino a titolo di cortesia), sia da una mera situazione di fatto. La cura invece può derivare unicamente “da valide fonti giuridiche formali”.

L’elemento soggettivo del reato consiste “nella coscienza di abbandonare a sé stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica di cui si abbia l’esatta percezione, senza che occorra la sussistenza di un particolare malanimo da parte del reo”.

È interessante notare che i Giudici di legittimità hanno altresì precisato che “per la sussistenza del delitto di abbandono di persone minori o incapaci basta uno stato, sia pure potenziale, di pericolo per l’incolumità del minore o dell’incapace in dipendenza dell’abbandono, onde l’abbandono è punibile anche se temporaneo” (Cass. penale sez. V, 24/03/2021, n. 27883).

Nel caso di specie, veniva confermata la condanna a carico di un padre che, recatosi presso una Caserma dei Carabinieri – per un incombente del quale non aveva certezza della durata – aveva lasciato per circa una mezz’ora la figlia di 5 anni a bordo del proprio veicolo, posteggiato all’interno di un parcheggio di un supermercato(“senza barriere all’ingresso e, quindi aperto all’accesso di qualunque soggetto”) che, peraltro, non poteva essere sorvegliato dall’interno della Caserma.

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Il prestito senza termine di scadenza

È stato sottoposto all’attenzione dello Studio Legale Campiotti Mastrorosa il seguente caso.

Tizio intende ottenere la restituzione di un’ingente somma prestata al fratello Caio, senza che i due avessero fissato un termine per la ripetizione del denaro.

Il primo profilo da considerare è quello regolato dall’art. 1817 c.c., ai sensi del quale, quando le parti non hanno fissato un termine per la restituzione delle somme prestate, è il giudice che lo determina.

Sembrerebbe quindi che il creditore che intenda recuperare le somme prestate, prima di poter formulare anche solo una richiesta di restituzione al debitore, debba rivolgersi al Tribunale affinché venga stabilito il termine entro cui quest’ultimo sia tenuto a restituire il denaro ricevuto a prestito.

D’altra parte, qualora il debitore rimanga inerte e non adempia spontaneamente, il creditore potrebbe agire in giudizio richiedendo contestualmente sia la fissazione del termine, sia la condanna di pagamento. La giurisprudenza, infatti, afferma che la pronuncia ha natura di accertamento, il che significa che il Giudice potrebbe ritenere che il termine sia già decorso al momento della domanda, essendo già trascorso un lasso di tempo congruo per la restituzione.

Non bisogna poi dimenticare che a tutela del creditore trova comunque applicazione la regola generale statuita dall’art. 1186 c.c., che legittima la pretesa immediata di adempimento – in questo caso di restituzione del prestito – qualora il debitore è divenuto insolvente oppure ha diminuito o non offerto le garanzie dovute o promesse. Ne consegue che in tal caso non sarà necessario alcun provvedimento sulla fissazione del termine, ma si potrà agire direttamente per la condanna di pagamento.

Non si esclude anche la possibilità dell’azione monitoria al fine di ottenere un’ingiunzione di pagamento nei confronti del mutuatario, con implicito riconoscimento dello stato di insolvenza o del decorso del termine congruo.

Il secondo profilo concerne la prescrizione. In tempi relativamente recenti la Cassazione ha chiarito che, in assenza di termine, il creditore è legittimato a richiederne la fissazione al Giudice sin dall’insorgere del prestito, pertanto la prescrizione decennale del suo diritto alla restituzione inizia a decorrere dal momento della stipula del contratto (Cass. 14345/2009).

Tutto quanto sopra vale anche nel caso in cui le parti abbiano stabilito che il debitore “paghi solo quando potrà” (co. 2, art. 1817 c.c.).

In conclusione, sarà possibile fornire una soluzione al quesito di Caio dopo un’attenta valutazione delle circostanze del caso concreto alla luce dei principi appena richiamati.

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Vendita: in caso restituzione del bene, bisogna tener conto dell’uso fatto

CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, 28/07/2020, N.16077 –

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha chiarito, in tema di vendita, i criteri da adottare per determinare il prezzo da restituire al compratore in caso di azione redibitoria.

Secondo quanto previsto dall’art. 1492 del Codice civile, è facoltà del compratore chiedere, laddove la cosa acquistata presenti vizi tali da renderla inidonea all’uso o da diminuirne in modo apprezzabile il valore, la risoluzione del contratto (la cd. azione redibitoria) con i seguenti effetti: il venditore dovrà provvedere alla restituzione del prezzo e al rimborso al compratore delle spese e i pagamenti sostenuti per la vendita; il compratore sarà tenuto a restituire la cosa, se non perita in conseguenza ai vizi.

Nel caso affrontato dai Giudici di Legittimità, l’azione redibitoria aveva ad oggetto un veicolo che, pur in presenza di vizi accertati, il compratore aveva continuato ad utilizzare per anni ovvero fino alla definizione del giudizio d’appello.

Nei precedenti gradi di giudizio, accolta l’azione di risoluzione, era stato ordinato al venditore di restituire l’integrale prezzo dell’automobile affetta dagli accertati vizi, e contestualmente all’acquirente di riconsegnare il veicolo nello stato in cui si trovava al momento della pronuncia (e, quindi, in ragione degli anni trascorsi e dell’uso, con un valore di gran lunga inferiore a quello avuto al momento della vendita).

La Corte di Cassazione, rilevando che gli effetti restitutori statuiti nella sentenza impugnata avevano dato origine ad una disparità di trattamento tra venditore e compratore, enunciava il seguente principio di diritto: “nella determinazione del prezzo da restituire al compratore di un’autovettura che abbia agito vittoriosamente in redibitoria si deve tener conto dell’uso del bene fatto dal medesimo, dovendosi, sul piano oggettivo, garantire l’equilibrio anche tra le reciproche prestazioni restitutorie delle parti ed evitare un’illegittima locupletazione dell’acquirente, ove lo stesso abbia continuato ad utilizzare il bene (ancorchè accertato come viziato ma non completamente inidoneo al suo uso), determinandone una sua progressiva e fisiologica perdita di valore” (Cass. Civ., Sez. II, 28.07.2020 n. 16077).

Si precisa che, nel caso in cui il compratore sia anche consumatore, la normativa di riferimento sarà quella di cui al D. Lgs. 206/1995 e, in particolare, l’art. 130 n. 8, che, a differenza dell’art. 1493 c.c., prevede che nel determinare l’importo della riduzione o la somma da restituire si tenga conto dell’uso del bene.

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Uso Esclusivo Di Parte Del Cortile Comune – Natura Ed Effetti

CORTE CASSAZIONE SEZIONI UNITE N. 28972 DEL 17.12.2020 –

Accade non raramente di trovarsi, in ambito di condominio di edifici, in presenza di un diritto d’uso esclusivo nascente in uno con la costituzione del condominio, a favore di uno o più condomini di porzioni di parti comuni. Ne sono oggetto più usualmente parti del cortile, spesso ad uso parcheggio, e/o parti del giardino comune, in generale attigue all’unità di proprietà esclusiva o comunque ad essa utili.

Le pronunce della Corte di Cassazione sulla natura e legittimità di tale “diritto”, sono state al riguardo molteplici e di segno opposto. Alcune hanno riconosciuto al detto “diritto d’uso esclusivo” il rango di diritto reale, come tale perpetuo e trasmissibile anche ai successivi proprietari dell’unità immobiliare in proprietà esclusiva, di esso beneficiaria, altre negandolo per inquadrarlo nei differenti diritti obbligatori, sicché della questione sono state investite le Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con completezza espositiva delle precedenti pronunce di segno alterno e motivazione più che esauriente, hanno escluso la natura di diritto reale al “diritto d’uso esclusivo” in oggetto.

Afferma infatti la Suprema Corte che nel nostro sistema normativo le figure dei diritti reali sono un numero chiuso che non consente all’autonomia delle parti la creazione di figure non tipiche. La conseguenza è che il diritto d’uso esclusivo in parola è nullo.

La Corte mitiga la declaratoria di nullità del diritto d’uso esclusivo quale figura atipica di diritto reale, affermando che sarà comunque opportuno indagare la volontà delle parti al momento della costituzione del condominio e della disposizione relativa al diritto d’uso esclusivo.

L’accertamento della volontà delle parti potrebbe portare a tre ipotesi: che esse abbiano inteso trasferire la proprietà della porzione condominiale impropriamente indicata come contenuto del diritto d’uso esclusivo; ovvero che esse abbiano inteso concedere il diritto reale d’uso normato dall’art. 1021 c.c., semprechè ne sussistano i requisiti, o, da ultimo, che esse abbiano inteso concedere un diritto di natura obbligatoria.

Le differenze tra le prime due ipotesi e la terza sono certamente significative quantomeno sotto il profilo della trasmissibilità a terzi del diritto che è esclusa qualora si sia in presenza di un uso esclusivo di natura obbligatoria.

Non si può escludere che la volontà delle parti fosse, invece, proprio quella della costituzione della figura atipica di un diritto d’uso esclusivo con effetti reali, che le SS.UU. hanno dichiarato nullo. In tal caso le SS.UU., nel rispetto del principio di conservazione degli effetti giuridici del contratto, suggeriscono che andrà verificata la possibilità che la clausola nulla possa comunque produrre gli effetti di un vincolo obbligatorio che di conseguenza, tra gli altri effetti, non potrà essere trasferito a terzi e al più avrà durata per la vita del beneficiario.