Studio Legale Campiotti Mastrorosa

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La comunione legale dei beni tra i coniugi

CORTE CASSAZIONE SEZ. IV ORDINANZA N. 3767 DEL 21.02.2021 –

Un recente pronunciamento della Corte di Cassazione – l’ordinanza n. 3767 del 12 febbraio 2021 – ci dà lo spunto per rivisitare i principi che regolano la comunione legale dei beni tra i coniugi.

La norma di riferimento è l’art. 177 codice civile. Essa prevede che rientrano nella comunioneconiugale gli acquisti effettuati durante il matrimonio dai coniugi, sia insieme che singolarmente, le aziende gestite da entrambi i coniugi se costituite dopo il matrimonio. Entrano altresì a far parte della comunione legale, purchè non consumati al momento del suo scioglimento, i frutti dei beni esclusivamente propri dei coniugi e i proventi delle attività separate dei coniugi.

Si tratta della cosiddetta comunione de residuo, poichè riguarda esclusivamente ciò che rimane al momento del suo scioglimento che, salvo casi più rari, si verifica al momento della separazione coniugale.

Il principio che la norma esprime riguardo ai frutti e ai proventi è che ciascuno dei coniugi è libero di disporre in totale autonomia dei redditi che produce con la propria attività e dei proventi dei beni suoi propri, decidendone l’utilizzo a suo esclusivo piacimento, come meglio ritenga opportuno senza che sia necessario l’accordo con l’altro coniuge cui non spetta alcun potere di veto.

Questo principio, che all’apparenza sembra legittimare comportamenti quantomeno personalistici e contradditori con la comunione coniugale, sia intesa in senso giuridico che nel suo senso etico, ha un limite ben preciso.

Il limite è dato dai doveri che nascono dal matrimonio, indicati dall’art. 143 codice civile. Non solo dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco, tra gli altri, all’assistenza materiale, ma anche quello di contribuire ai bisogni della famiglia, secondo le proprie sostanze e le proprie capacità lavorative, professionali e/o casalinghe. Ciò impone ai coniugi un obbligo contributivo per i bisogni della famiglia.

Al di fuori di tali obblighi, ciascuno dei coniugi può legittimamente usare i suoi proventi e “consumarli” come meglio preferisce, per fini esclusivamente personali o, meglio, per attività esclusivamente personali sia voluttuarie che non. Naturalmente se l’utilizzo dei proventi personali ha l’effetto di acquistare beni questi entreranno a far parte della comunione ai sensi del punto a) del citato art.177.

L’ordinanza della Corte di Cassazione 376 del 2021 conferma tali principi in particolare affermando che “la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi” dove l’avverbio “effettivamente” assume una rilevanza dirimente (si veda al riguardo anche Cass. Sez. I n. 2597 del 07. 2. 2006).

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Guida in stato di ebbrezza: il rifiuto di sottoporsi agli accertamenti

CASSAZIONE PENALE SEZ. IV, sent. 16/03/2021, n. 10146

All’interno della più ampia regolamentazione dell’illecito di guida in stato di ebbrezza alcolica, il co. 7 dell’art. 186, D.Lgs 285/1992 (il cd. Codice della Strada) prevede un’autonoma fattispecie di reato nel caso di rifiuto da parte del conducente di sottoporsi ai relativi accertamenti.

Il citato comma 7, fa esplicito riferimento agli accertamenti indicati dai commi 3, 4 e 5.

In base al comma 3, le forze di Polizia possono effettuare una valutazione “preliminare”, con metodi non invasivi (ad es. utilizzando strumenti portatili) al fine di verificare se il conducente deve essere sottoposto al controllo del tasso alcolico.

Il comma 4 prevede che, nel caso in cui ci sia motivo di ritenere (eventualmente dopo le valutazioni di cui al punto precedente) che il soggetto fermato si trovi in uno stato di alterazione psicofisica dovuta all’abuso di alcol, gli organi di Polizia possono effettuare gli accertamenti tramite etilometro rispondente ai requisiti di cui all’art. 379, Reg. Cod. Strada, anche accompagnandolo presso il più vicino ufficio o comando.

Da ultimo, il comma 5 dispone che ai conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcoolemico viene effettuato, su richiesta degli organi di Polizia stradale, da parte della struttura sanitaria.

Un aspetto di recente ribadito dalla Cassazione è che tale norma deve essere letta in modo rigoroso e non può dar luogo ad applicazioni estensive o analogiche. Con la sentenza n. 10146 del 2021 è stato assolto il conducente di un motociclo che si era rifiutato di seguire presso una vicina struttura ospedaliera i Carabinieri, con lo scopo non di prestagli delle cure, pur essendo rimasto coinvolto in un incidente, ma di verificarne lo stato di ebbrezza.

Tale ipotesi, infatti, non rientra in alcuno dei casi previsti dai commi 3, 4 e 5 sopra ricordati.

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Diritto di cronaca e privacy

CASSAZIONE CIVILE SEZ. I, 19/02/2021, N.4477 –

Pochi giorni fa è stata depositata un’interessante sentenza in tema di corretto bilanciamento tra diritto alla cronaca giornalistica e la tutela della privacy.

Il fatto in sintesi era il seguente. I genitori di una bambina, che versava in stato semi-comatoso, nella speranza di ottenerne qualche effetto positivo, invitavano un noto calciatore a farle visita. Lo sportivo accettava e, in occasione dell’incontro, venivano scattate delle fotografie ritraenti il calciatore, nonché la minorenne e i genitori della stessa. Poco dopo, le immagini erano riprodotte da importanti quotidiani e reti televisive. Per tale ragione, i genitori citavano in giudizio i media al fine di ottenere il risarcimento del danno morale, contestando di non aver rilasciato alcuna autorizzazione o consenso alla pubblicazione.

Il Tribunale rigettava le pretese degli attori, i quali promuovevano ricorso in Cassazione.

La pronuncia in esame, al di là della decisione del caso di specie, risulta significativa anche per l’esaustiva disamina di tutte le norme e i principi necessaria per poter stabilire i limiti entro i quali, per ragioni di cronaca, è lecito utilizzare l’immagine di una persona. Va detto, inoltre, che un’attenzione particolare è stata posta alla circostanza che era coinvolto un minorenne.

La Cassazione ha affermato che “il diritto alla riservatezza del minore deve essere considerato assolutamente preminente” e che può essere subalterno al diritto di cronaca solamente quando sussista “in concreto, uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita”. Infatti, “la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sè, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte”.

Accogliendo le doglianze dei genitori, la Corte ha ritenuto che, nel caso concreto, il Tribunale aveva omesso l’accertamento dello specifico interesse pubblico alla rivelazione delle fotografie del minore. Interesse che, alla luce di quanto emerso in giudizio, non risultava sussistere.

Nel caso concreto l’avvenuta pubblicazione di foto centrate (anche) su di una minore allettata, non importa se con il viso oscurato, tra apparecchi e cavi, con medici ed infermieri e con la diffusione delle generalità, è certamente lesiva di quel preminente interesse del minore”.

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La pensione di reversibilità ai superstiti non esclude il danno patrimoniale ai famigliari della vittima

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 01/02/2021, N. 2177 –

La Cassazione è recentemente tornata ad occuparsi del problema della cumulabilità tra pensione di reversibilità ai superstiti e risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante.

Il caso era quello dei famigliari di Tizio, deceduto a seguito di un sinistro stradale causato dal veicolo condotto da Caio, che ricorrevano al Tribunale per vedersi riconosciuto, tra l’altro, il danno patrimoniale dovuto alla perdita degli emolumenti che Tizio garantiva alla propria famiglia.

In primo grado, così come in appello, la richiesta dei congiunti di Tizio era rigettata. Veniva infatti affermato che, dal momento che i famigliari danneggiati beneficiavano d’una pensione di reversibilità pari al 60% del reddito del defunto, si doveva applicare il principio della cd. “compensatio lucri cum damno”, ossia il criterio secondo cui i danni derivanti da un illecito (in questo caso la perdita dei guadagni di Tizio) si debbano compensare gli eventuali vantaggi conseguiti (in questo caso la pensione ai superstiti conseguenza diretta della morte di Tizio).

Rivoltisi alla Corte di Cassazione, i famigliari trovavano finalmente il riconoscimento alle proprie pretese.

Aderendo all’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite nel 2018, la Corte ha infatti ricordato che la compensatio lucri cum damno può attuarsi solo nel caso in cui la fonte della perdita e del guadagno derivino da fatto illecito.

Nel caso di specie, invece, “dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo”.

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Condominio: i voti espressi in assemblea si contano per testa

CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, 12/11/2020, N. 25558 –

La regolarità della costituzione delle assemblee condominiali e la validità delle loro delibere interessa un numero non indifferente di persone, certamente tutti coloro che sono proprietari di unità immobiliari in condominii, a partire da quelli costituiti da due sole unità immobiliari.

Dalla loro regolarità e validità dipende l’efficacia delle decisioni che l’assemblea assume e che, con le maggioranze previste dalla legge, saranno obbligatorie per tutti i condomini, con effetti che i dissenzienti ritengono in genere di difficile accettazione.

La necessità pertanto che entrambe siano regolari e valide è una tutela che la norma pone a favore di tutti i condomini, a maggior ragione a favore di ciascuno singolarmente, che potrà contestare le delibere qualora esse non siano state assunte “correttamente” o da un’assemblea non idoneamente costituita.

I requisiti richiesti a tale fine sono: la proporzione del valore dell’edificio rappresentato dai partecipanti e il numero dei presenti e dei votanti (art. 1136 cod. civ.).

Benché la questione del numero dei presenti possa apparire di semplice e indiscutibile soluzione, ciò non è.

Si pensi al caso in cui di un condominio faccia parte una persona che abbia la proprietà di più di un’unità immobiliare (ad esempio più appartamenti) oppure, caso forse più raro, che sia proprietario di un’unità immobiliare e abbia il diritto di usufrutto su un’altra unità immobiliare. Come dovrà avvenire il computo dei presenti all’assemblea (per la sua regolare costituzione) e il computo dei votanti (per la validità delle delibere assembleari)?

La seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25558 del 2020, ha stabilito che, per il computo dei voti espressi, occorre fare riferimento esclusivamente al numero dei condomini e non al “numero” delle unità immobiliari sulle quali essi abbiano diritti di proprietà (o altri diritti reali quali ad esempio il diritto di usufrutto).

Con la stessa sentenza la Corte ha altresì statuito che in caso di due soli condomini per la validità delle delibere deve necessariamente formarsi l’unanimità in assenza della quale sarà inevitabile ricorrere all’autorità giudiziaria (art. 1105 e art. 1139 cod. civ.).

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La disattenzione del danneggiato esclude la responsabilità del custode

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI CIVILE, ORD. 23/12/2020 N. 29435 –

A seguito di una brutta caduta, per essere inciampata in un dislivello presente nella pavimentazione della piazza centrale della città, la signora Tizia citava in giudizio il Comune pretendendone il risarcimento del danno.

La fonte della responsabilità del Comune deriva dall’art. 2051 c.c., che pone a carico del custode, cioè di colui che ha il potere di vigilanza e controllo su una cosa, il risarcimento dei danni che da quella cosa derivino. Il custode può liberarsi da questo stringente onere solo provando che il danno sia derivato dal “caso fortuito”.

Nel caso della signora Tizia, la Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità del Comune rifacendosi ai principi emersi nella più recente prassi interpretativa: “quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso”. In termini più immediati: l’ingiustificabile e colpevole disattenzione o imprudenza del danneggiato può escludere del tutto la responsabilità del custode.

Sulla base di questo assunto la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva riscontrato in fatto “che il dislivello in questione aveva un’altezza di circa 12 centimetri, conseguenti all’esecuzione di alcuni lavori di riqualificazione urbana della Piazza”, che “la colorazione della parte superiore del gradino-dislivello era ben differente rispetto a quella della parte inferiore e che le lastre della parte superiore erano anche poste con una striscia di direzione inversa rispetto a quelle del piano inferiore” e che “detta differenza cromatica rendeva ben visibile il dislivello in una giornata di sole come quella in cui si era verificata la caduta; ed era d’altronde pacifico come esso era in ottimo stato di manutenzione, dato il recente svolgimento dei lavori di riqualificazione.

Quindi, ad avviso dei Giudici di Legittimità, correttamente, sulla base di tali premesse la Corte d’Appello aveva concluso che la caduta della signora Tizia “era da imputare esclusivamente ad una sua disattenzione, pienamente idonea ad integrare il caso fortuito”.

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La ricorrenza infrequente di un fenomeno naturale, non ne esclude la sua prevedibilità

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. UN., 26/02/2021, N. 5422 –

Il proprietario di un fondo agricolo si rivolgeva al Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Napoli al fine di chiedere il risarcimento dei danni che l’esondazione di un canale irriguo consortile aveva provocato nel terreno di sua proprietà.

Secondo le ricostruzioni poste a fondamento delle difese dei convenuti, l’evento dannoso si era verificato esclusivamente a causa dell’intensità delle precipitazioni atmosferiche, che, per la loro imprevedibilità ed eccezionalità, avevano rappresentato un vero e proprio caso fortuito, idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la cosa in custodia (nella fattispecie il canale irriguo) e il danno.

Di diverso avviso, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con sentenza del 26 febbraio 2021, hanno ribadito che “la ricorrenza saltuaria, anche se non frequente, di un fenomeno naturale, non ne esclude la sua prevedibilità in base alla comune esperienza”.

In tal senso, pertanto, l’imprevedibilità, da valutarsi attraverso un’indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, andrà “intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento”, mentre l’eccezionalità sarà da “identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) dalla frequenza statistica accettata come “normale”.

In caso di eventi naturali, quali ad esempio le precipitazioni atmosferiche, “l’accertamento del “caso fortuito” sarà quindi essenzialmente orientato da dati scientifici di stampo statistico (in particolare, i dati c.d. pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia”.

Sulla scorta dei principi sopra enunciati, i Giudici di Legittimità hanno ritenuto che il Tribunale Superiore delle Acque avesse concluso correttamente nel giudicare non eccezionali gli eventi meteorici che avevano causato l’esondazione, avendo le parti prodotto un documento (c.d. rapporto di evento), risalente a pochi anni prima, nel quale era stato previsto un tempo di ritorno delle piogge in 25 anni.

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Preliminare di vendita: la mancata restituzione della caparra è reato?

CASSAZIONE PENALE, SEZ. II, SENT. 23/06/2020, N. 19095 –

La stipula di contratti preliminari di vendita di immobili, cioè di accordi con cui due o più parti si impegnano a sottoscrivere in un momento successivo un contratto cd. definitivo di vendita, è all’ordine del giorno. Le ragioni per le quali le parti decidano di anteporre alla compravendita effettiva con un accordo preliminare sono le più svariate. Tuttavia, generalmente, ciò accade quando il soggetto interessato all’acquisto deve ricorrere a un prestito per poter pagare il prezzo e, nell’attesa che l’istituto di credito accolga la richiesta di mutuo, vuole evitare che il proprietario venda a terzi. Altrettanto comune è che il contratto preliminare preveda a carico del promittente acquirente il versamento immediato di una percentuale del prezzo, a titolo di caparra confirmatoria o di acconto.

Come qualunque altro contratto, anche quello preliminare può cessare i suoi effetti prima che giunga al suo scopo, ad esempio per inadempimento di una delle due parti. In tal caso, evidentemente, il promittente venditore che ha ricevuto dall’altra parte la caparra o l’acconto deve restituirla (tralasciando in questa sede il diritto al risarcimento di eventuali danni).

La mancata restituzione di tali somme comporta delle responsabilità di natura penale?

Su questo profilo la Cassazione esprime un orientamento ormai consolidato, affermando che “non integra delitto dì appropriazione indebita la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto preliminare per l’acquisto dì un immobile, non restituisca al promissario acquirente la somma ricevuta a titolo di acconto sul prezzo pattuito”.

Le ragioni di tale decisione, che vale sia per la caparra, sia per l’acconto, sono determinate dal fatto che “a seguito della dazione, la somma di denaro è entrata definitivamente a far parte del patrimonio dell'”accipiens” senza alcun vincolo di impiego, con la conseguenza che nel caso di in cui il contratto venga meno tra le parti matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra esclusivamente un inadempimento di natura civilistica”.

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Responsabile la banca per la condotta illecita del promotore finanziario

CORTE DI APPELLO DI MILANO, SENT. 2661 DEL 20.10.2020

La Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 2661/2020 ha accolto le tesi dello Studio Legale Campiotti Mastrorosa, in una complessa vicenda relativa ai danni patiti dai clienti di un importante istituto di credito a causa dei comportamenti illeciti di un promotore finanziario.

La causa era stata promossa da alcuni clienti di una banca, seguiti per anni dal medesimo promotore finanziario, dopo essere stati convocati presso la sede della stessa e in quella occasione scoperto che il professionista, a cui si erano affidati fino a quel momento, aveva sottratto loro ingenti somme che essi ritenevano investite a loro favore e presenti nel proprio portafoglio finanziario.

Mentre nessun dubbio vi è stato sulla responsabilità del promotore finanziario, condannato in entrambi i gradi di giudizio, l’aspetto saliente della pronuncia della Corte d’Appello è di aver ribaltato la sentenza del Tribunale, riconoscendo la corresponsabilità della banca. Si deve infatti considerare che in queste ipotesi (purtroppo non rare) l’unico modo di ottenere un risarcimento passa attraverso la banca, poiché il promotore che ha materialmente commesso le condotte illecite (generalmente nei confronti di decine di clienti) non ha un patrimonio personale (verosimilmente perché distratto) tale da ripagare tutti i danni cagionati.

La norma di riferimento è l’art. 31 del D.Lgs 58/1998, il quale sancisce che l’istituto di credito è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale.

Numerosissime sono state le pronunce giudiziali in materia, che hanno ritenuto che tale norma operi solo laddove sussiste il cosiddetto nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze affidate al promotore e l’incarico ricevuto dalla banca. Nesso che si può escludere in caso di profonda anomalia nel rapporto tra le parti, che si riscontra quando il cliente ha una consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul consulente.

Nel caso di specie la Corte d’Appello ha abbracciato un’interpretazione più coerente con le finalità dell’istituto, posto a protezione del singolo investitore.

È risultato che nei singoli casi le modalità operative intercorse tra le parti erano sicuramente irregolari, come ad esempio la firma di moduli di bonifico in bianco, la consegna di assegni non intestati, la rendicontazione delle operazioni su fogli manoscritti dal promotore e non trasmessi direttamente dalla banca, eccetera. Tuttavia la Corte ha ritenuto integrato il nesso di occasionalità necessaria, considerate le competenze finanziarie delle vittime, che “nell’ipotesi di rapporti di lunga data, come nel caso di specie, l’inevitabile fiducia intercorrente tra il cliente e il promotore finanziario ben può giustificare una minore attenzione del cliente circa le modalità operative tenute dal promotore finanziario” e “la particolare ingegnosità/accortezza del promotore nell’avere inizialmente adempiuto regolarmente gli incarichi ricevuti, mettendo in atto piani truffaldini soltanto quando era ormai sicuro di avere conquistato la totale fiducia del cliente”.

La Corte nell’affermare la responsabilità della banca ha peraltro stigmatizzato “la totale assenza di vigilanza e controllo sull’operato del proprio promotore finanziario, assenza protrattasi per anni”, alla luce anche l’intensissima attività illecita del promotore.

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Obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni

CASSAZIONE CIVILE SEZ. I, 14/08/2020, N. 24204

Viviamo un’epoca in cui il precariato e la disoccupazione giovanile sono ampiamente diffusi. Sono problemi avvertiti non solamente dalle fasce di popolazione più giovane, ma anche dai genitori che, da un lato, assistono quotidianamente le difficoltà dei propri figli a trovare una stabilità lavorativa ed economica, e, dall’altro, sono tenuti a garantire ad essi un adeguato sostentamento.

Ma fino a che punto si può pretendere che un genitore mantenga un figlio maggiorenne abile al lavoro?

Partiamo dal dato normativo: l’art. 337 septies del codice civile prevede che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni, non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico.

Innanzitutto si osserva che se sussista o meno il diritto al mantenimento, dipende da una scelta discrezionale del giudice che deve decidere, in base a tutte le condizioni che caratterizzano il caso specifico, le pronunce rinvenibili in giurisprudenza sono numerosissime e contengono molte variabili.

Tuttavia, con la recente sentenza n. 24204/2020, la Corte di Cassazione ha riassunto alcuni tra i criteri più significativi da utilizzare come riferimento.

Un primo indice è l’età. Si ritiene che le valutazioni del giudice debbano essere più rigorose tanto maggiore è l’età del beneficiario. Diversamente, il rischio è che si verifichino “forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani” (Cass. 6 aprile 1993 n. 4108).

È stato poi riconosciuto il diritto del figlio ad essere supportato economicamente “nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni” e “avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società”, compatibilmente con le condizioni economiche dei genitori (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076).

Si è, invece, escluso l’obbligo al mantenimento in caso di matrimonio o, comunque, di formazione di un autonomo nucleo familiare del figlio maggiorenne.

Altro criterio fondamentale si fonda sul principio dell’autoresponsabilità. È stato infatti osservato che “è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell’auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni” (Cass. 26 agosto 2020, n. 17793).

Bisogna porre, in ogni caso, l’accento sul fatto che non è sufficiente trovare un’occupazione lavorativa per escludere il mantenimento. Essa deve comunque garantire l’indipendenza economica, da intendersi come quella che soddisfa le primarie esigenze di vita ed è in grado di garantire un’esistenza dignitosa.